lunedì 24 giugno 2024
Identificato, nell'ambito del progetto Mnesys sul cervello, un enzima chiave che influenza le terapie nei disturbi psichici. Il ruolo delle variabili genetiche nelle malattie che investono i giovani
undefined

undefined - undefined

COMMENTA E CONDIVIDI

È ormai dimostrato: nelle persone con malattie mentali severe, aumenta il rischio di sviluppo di malattie fisiche, incluse quelle oncologiche. Addirittura, per dirla con Luigi Grassi, ordinario di Psichiatria all’Università di Ferrara, e Alessio Maria Monteleone, dell’Università Vanvitelli di Napoli, la mortalità per tumore risulta dell’86% più alta nei pazienti affetti da depressione grave, rispetto al resto della popolazione. Lo afferma un recente studio su oltre 12.000 persone con schizofrenia o disturbo bipolare. E lo conferma un nuovo lavoro, intitolato Major depression and mortality from cancer: a 10-year Italian study, in via di pubblicazione, che ha preso in esame 13.000 cittadini dell’Emilia-Romagna con depressione maggiore, seguite in 10 anni dai dipartimenti di salute mentale regionali.

Il dato è tra i più interessanti emerso nel corso della presentazione del progetto Mnesys, il più ampio programma di ricerca sul cervello mai realizzato in Italia, che, coordinato dal ministero dell’Università e della ricerca, e con un investimento record di 115 milioni di euro del Pnrr, mette insieme decine di atenei e istituti scientifici del nostro Paese. L’impatto di queste ricerche sulla popolazione generale è facilmente intuibile, visto che un italiano su cinque soffre di almeno un disturbo mentale: sono mezzo milione gli individui che presentano schizofrenia e disturbi bipolari e 3 milioni gli italiani affetti da depressione. Malattia che, nella forma più grave, ha un impatto così significativo sulla qualità della vita, da essere considerata dall’Organizzazione mondiale della sanità al primo posto come onere sociale tra tutte le patologie, prima ancora di quelle cardiovascolari.

Nell’ambito del macro-progetto (Spoke 5) “Umore e psicosi” di Mnesys, la convinzione dei neuroscienziati diventa un percorso lavorativo: malattie come la depressione non vanno considerate unicamente come patologie mentali ma come disturbi che coinvolgono molti organi e apparati, e che determinano, precisano Grassi e Monteleone, «un incremento degli ormoni dello stress e una riduzione dell’attività immunitaria attraverso molti meccanismi biologici, inclusi fenomeni infiammatori a livello cerebrale». Da qui il rischio di sviluppare malattie fisiche. «La mortalità per cancro in persone affette da schizofrenia, disturbi bipolari o depressione grave – aggiungono i due esperti - è più elevata rispetto alla popolazione generale».

Diventa dunque di primaria importanza l’identificazione di variabili biologiche e genetiche che possano incidere sulla neuroinfiammazione e, di conseguenza, favorire l’insorgenza delle malattie psichiche e fisiche, ma anche comprendere se caratteristiche che variano da paziente a paziente possano inficiare l’efficacia della terapia proposta. A tal proposito, gli specialisti dello Spoke 5 sottolineano che «uno dei geni che regola la produzione di un enzima chiave, il “Cyp2c19”, può influenzare la risposta terapeutica e gli esiti clinici nella depressione maggiore. Abbiamo analizzato - spiega Chiara Fabbri, ricercatrice dell’Università di Bologna -, i dati di oltre 40mila individui a cui erano stati prescritti gli “Ssri”, ovvero gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (la cura attualmente più utilizzata per la depressione maggiore, ndr), e abbiamo rilevato che i pazienti con una bassa produzione dell’enzima non rispondevano al trattamento, con conseguente maggiore probabilità di cambiare antidepressivo e di avere effetti collaterali dopo la prima prescrizione rispetto a individui senza variazioni del gene studiato».

L’attenzione dello Spoke 5 è rivolta anche alle patologie psicotiche, disturbi che si manifestano soprattutto a partire dalla giovane età, con un picco di prevalenza nell’adolescenza, ma il cui esordio spesso non viene colto, se non a distanza di mesi o anni, con un ritardo che influenza negativamente prognosi e terapie. «Come emerso in un nostro studio su Psychological Medicine a dicembre 2023, la durata di malattia non trattata, cioè il tempo che intercorre tra l’insorgenza della psicosi e l’intervento terapeutico è globalmente di 42,6 settimane e, a livello europeo, di 38,6 settimane, equivalenti a più di 9 mesi - evidenzia Paolo Fusar Poli, professore di Psichiatria dell’Università di Pavia -. Cogliere tali disturbi al più presto permette di migliorare gli interventi che non si devono limitare a ridurre i sintomi psichiatrici, come allucinazioni o delirio, ma a permettere alla persona di riprendere il proprio “funzionamento” e condurre una vita produttiva e soddisfacente. Per questo, siamo cercando di implementare l’utilizzo di metodi per valutare precocemente il rischio di patologia psicotica». In questo caso, dunque, giovane età e diagnosi precoce devono necessariamente viaggiare di pari passo perché durante la delicata fase di maturazione del cervello in età adolescenziale, affermano Alessandro Bertolino e Giulio Pergola dell’Università di Bari, «alterazioni dei circuiti e delle connessioni di alcune aree del cervello si correlano con il rischio genetico di sviluppare la malattia schizofrenica».

Epilessia, scoperto gene collegato

Ha invece origine nello “Spoke 3” di Mnesys, diretto dall’Università Federico II di Napoli, lo studio che rivela come all'origine di alcune forme di epilessia a insorgenza pediatrica, ci siano variazioni in un gene denominato “Kcna3”, responsabile della produzione di alcune proteine coinvolte nell'eccitabilità dei neuroni. La ricerca internazionale è coordinata da Johannes Lemke, dell’Università di Lipsia, in Germania, e da Maurizio Taglialatela, ordinario di Farmacologia della “Federico II”, e potrebbe contribuire a individuare trattamenti più efficaci per bambini e ragazzi con epilessia. Malattia che, nel 60% dei casi, insorge entro i 13-14 anni. Nonostante ciò, il trattamento delle epilessie in età pediatrica è ostacolato dalla bassa specificità dei trattamenti disponibili. In questo lavoro, continua Taglialatela, «sono stati selezionati individui portatori di una variante del Kcna3, l'86% dei quali con manifestazioni di encefalopatie epilettiche. Lo studio ha inoltre mostrato che il farmaco antidepressivo fluoxetina potrebbe rappresentare un potenziale trattamento mirato per gli individui portatori di alcune varianti di Kcna3».

Sempre nell’ambito di Mnesys, un’altra ricerca si concentra invece sulla forma di epilessia acquisita, e mostra che tra le cause potrebbe esserci un'alterazione del microbiota intestinale. In esperimenti su modelli animali è stato dimostrato che gli animali con epilessia, avevano «alterazioni strutturali, cellulari e molecolari che riflettono un intestino disfunzionale, specificamente associato all'epilessia», riferisce Teresa Ravizza dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, tra gli autori dello studio.

Mix di farmaci blocca le cellule del glioblastoma

Novità anche sul fronte del tumore cerebrale più aggressivo: il glioblastoma, per il quale si sta approntando un innovativo mix di farmaci. «Nonostante i progressi nella caratterizzazione e classificazione di queste neoplasie, le terapie sono ancora poche e spesso inefficaci e il glioblastoma rimane ad oggi un tumore incurabile, con un tempo di sopravvivenza mediano di 15 mesi>, ricorda Lorenzo Chiariotti, professore di Patologia generale alla “Federico II”. In un lavoro pubblicato a settembre scorso su Cell Death & Disease, è stato rilevato che in più della metà dei glioblastomi analizzati è maggiormente espresso un particolare enzima: la “lisina metiltransferasi Setd8”. «Abbiamo trattato cellule di glioblastoma con un inibitore specifico, “Unc0379”, e notato che si riduceva la loro proliferazione», osserva Chiariotti. «Siamo poi riusciti a dimostrare che la combinazione dell'inibitore di Setd8 con un farmaco antitumorale sperimentale, l'Adavosertib, induce la morte delle cellule maligne. Gli esperimenti – dichiara Chiariotti - sono stati condotti anche sui modelli murini e il risultato è stato confermato».

Non è tutto. «Le caratteristiche di questo inibitore fanno pensare che il farmaco sia in grado di attraversare la barriera emato-encefalica, cioè la struttura interposta fra sangue e tessuto nervoso, che protegge il sistema nervoso da avvelenamenti e intossicazioni. Sono ora in corso ricerche tese a dimostrare la permeabilità di Unc0379 attraverso la barriera in modelli murini. La prova formale in vivo della capacità del farmaco di raggiungere il cervello – conclude il docente – è infatti la condizione necessaria per poter dare il via a studi clinici sull'uomo».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: