Il traghetto Moby Prince brucia a seguito della collisione con la petroliera Agip Abruzzo. Su 141 persone a bordo, morirono in 140 - Ansa
Quella del Moby Prince fu una strage, non una tragedia del mare. Ormai non ci sono dubbi. Purtroppo, per arrivarci, ci sono voluti trent’anni. Era infatti la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 quando il traghetto della Navarma diretto a Olbia, in Sardegna, entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, ancorata in rada fuori dal porto di Livorno. Nel rogo innescato dallo scontro morirono 140 delle 141 persone, tra equipaggio e passeggeri, a bordo del Moby Prince. Si salvò solo un giovane mozzo, Alessio Bertrand.
L’incendio fu causato dall’attrito tra le lamiere e dal petrolio che si era riversato sul traghetto dopo aver colpito la cisterna della petroliera. Ma le fiamme non avvolsero immediatamente tutto il Moby Prince. Per cui è certo che le persone non morirono entro mezz’ora come si è sempre detto, ma anche dopo ore a causa anche dei soccorsi che non arrivavano. La convinzione che fossero tutti morti in pochi minuti è stato uno degli equivoci o degli errori principali dovuto anche a perizie medico legali approssimative.
Per tanti anni si è parlato di errore umano. Si ipotizzò anche che l’equipaggio fosse stato distratto dalla partita di calcio Juventus-Barcellona. Cosa che il mozzo Bertrand ha sempre negato. Si è tirata in ballo la nebbia che avrebbe impedito al traghetto di vedere la petroliera, ma quella notte d’aprile il cielo sopra Livorno era sereno, la visibilità ottima e il mare calmo. Non è mai stato chiarito se il Moby Prince fosse fuori rotta, ma di sicuro la Agip Abruzzo era fuori posto, ancorata dove non doveva. Per di più i soccorsi, sia pure lenti, si diressero verso la petroliera e non verso la nave passeggeri, anche perché la stessa Agip Abruzzo aveva comunicato per radio l’impatto con una bettolina. Il riconoscimento del traghetto avvenne un’ora, 19 minuti e 59 secondi dal "Mayday".
Perizie sbrigative, testimoni chiave ignorati, interrogatori frettolosi, prove scomparse nel nulla hanno portato a un processo di primo grado in cui sono stati assolti tutti gli imputati di omicidio colposo plurimo perché «il fatto non sussiste». Una sentenza parzialmente riformata in appello che ha stabilito «il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato», ma perlomeno ha denunciato l’«inchiesta sommaria» da parte della Capitaneria di porto.
Intanto, tra processi, sentenze, prescrizioni e archiviazioni, è cresciuto l’impegno dei familiari delle vittime del Moby Prince riuniti in due associazioni. La prima denominata "140" raccoglie la maggioranza dei familiari ed è presieduta da Loris Rispoli, che nel rogo ha perso la sorella. La seconda, "10 aprile", di più recente costituzione, è presieduta da Luchino Chessa, figlio del comandante del traghetto, Ugo Chessa.
L’azione instancabile dei due gruppi, ma anche il sostegno fattivo dell’allora presidente del Senato Pietro Grasso, ha portato, 25 anni dopo il disastro, a un Commissione d’inchiesta parlamentare, presieduta dal senatore Silvio Lai, che ha stabilito che la collisione non è stata dovuta alla presenza della nebbia e tantomeno alla condotta colposa del comandante del traghetto, dichiarando altresì carenti le indagini della Procura di Livorno e la totale incapacità della Capitaneria di porto di coordinare le operazioni di soccorso con la conseguente morte di alcuni passeggeri molte ore dopo la collisione.
Le conclusioni della Commissione d’inchiesta del Senato, pubblicate in quasi 500 pagine nel gennaio 2018, hanno quindi smentito, di fatto, le sentenze di assoluzione già emesse nei processi di primo grado e d’appello. Ma per il momento, in attesa di una possibile inchiesta ter, restano 140 morti e nessun colpevole.