Una scritta anti polizia nel quartiere Barriera di Torino
«A inizio settembre qui davanti c’è stata una rissa furibonda tra adolescenti, con pugni violentissimi. Lì per lì abbiamo chiamato i carabinieri, poi abbiamo scelto come sempre la via del dialogo». Don Stefano Mondin è il direttore della Casa salesiana Michele Rua, un fortino della solidarietà piantata nel mezzo di Barriera di Milano, uno dei quartieri più problematici di Torino. Di fronte al disagio giovanile che lo circonda, il sacerdote sceglie la via più semplice e pragmatica: incontra e ascolta. Poi riapre la porta, purché si accetti di ammettere gli errori e rigare dritto. «Alla rissa hanno preso parte alcuni ragazzi che frequentano il nostro oratorio, tra i 14 e i 17 anni, quasi tutti italiani. Sono stati i primi a rendersi conto che avevano esagerato e perciò in seguito sono venuti a scusarsi. Li abbiamo riammessi, ma prima c’è stato un confronto molto franco su quanto era accaduto».
Il passo successivo, in questi casi, prevede il coinvolgimento delle famiglie, non sempre sconosciute alla giustizia. Con tatto, don Mondin lascia tra parentesi i precedenti dei genitori, facendo capire che a lui sta a cuore solo il futuro dei ragazzi. Un messaggio che viene recepito e apprezzato anche in ambienti che, per dirla con un eufemismo, vivono ai confini della legalità: prevale la volontà di tenere i figli alla larga da certi giri. E quindi la mano tesa del sacerdote viene accettata. In questo modo l’opera di reinserimento si semplifica: se anche papà, che magari non è uno stinco di santo, ti dice di stare a sentire il prete, tutto diventa più semplice.
A quel punto i salesiani concedono la seconda possibilità. Non gratis però. «Chiediamo di rispettare le regole, e li inseriamo nelle nostre attività: sport, ma anche volontariato. Qualcuno si adegua malvolentieri, solo per poter rimanere dentro la nostra realtà. Altri invece capiscono e la cosa funziona davvero. Il passo successivo è l’inserimento lavorativo, grazie anche alla sensibilità delle aziende che condividono i nostri percorsi». Il punto di partenza, però, resta sempre la consapevolezza di aver sbagliato. «Chi è venuto da noi dopo la rissa lo ha fatto perché aveva compreso di averci deluso. Il rapporto umano è alla base di tutto: se c’è quello, è possibile ricucire e ripartire». Patti chiari e amicizia lunga, però. «Certi limiti non si possono oltrepassare: da noi non si può assolutamente entrare con il coltello. Era capitato tempo fa, da uno zaino ne era spuntato uno. Il ragazzo è stato subito allontanato: devono capire che la violenza fine a se stessa, addirittura premeditata, non può trovare spazio».
Un altro approccio efficace è quello della giustizia riparativa, che aiuta chi ha commesso un reato a prender coscienza del danno provocato alla vittima, per poi tentare di ricucire lo strappo. Sforzi di cui, poi, terrà conto anche il giudice. «Per funzionare, questo percorso deve essere ritagliato in modo “sartoriale” sul reo, e deve coinvolgere apparati giudiziari, servizi sociali, comunità locali e associazioni» dice Silvio Masin, coordinatore del progetto “Tra Zenit e Nadir”, sviluppato dalla Fondazione Don Calabria e sostenuto da “Con i bambini”. L’iniziativa, che si concluderà a marzo 2025, ha intercettato quasi 500 giovani autori di reati (età 16-19 anni) tra Lombardia, Veneto e Trentino.
A Verona, il progetto ha coinvolto le baby gang: i membri hanno preso parte a laboratori pensati per riflettere sui gesti compiuti ed esprimere le proprie emozioni. «Quando ci sono le condizioni, c’è l’incontro la vittima, per capire che commettere un reato non significa solo trasgredire una norma. In questi casi anche chi ha subito trae beneficio dal faccia a faccia, primo perché trova il coraggio di affrontare il responsabile, che a sua volta deve mettersi in ascolto. Poi capita che ne nasca un accordo sulle modalità di riparazione, come ad esempio l’impegnarsi in attività di volontariato. C’è anche chi riannoda i fili di un’amicizia che era stata spezzata proprio dal reato».
La riparazione avviene in modo concreto, non solo a parole. «Chi rompe una panchina e un’altalena magari accetta di tornare nel parco per aggiustarle. Nel caso di Verona, i ragazzi delle baby gang hanno scritto una lettera aperta al Comune e alla cittadinanza per ammettere i torti, chiedere scusa e spiegare come erano arrivati al punto di compiere determinate azioni».
Anche l’arte aiuta: a Venezia la rielaborazione del vissuto microcriminale ha prodotto quadri e video. Quel che conta è fermarsi a pensare. «Molti di questi ragazzi - sottolinea Masin - non avevano mai incontrato prima adulti che li invitassero a riflettere sul passato, sul presente ma anche sul futuro». Alzare la testa e guardare oltre la violenza: ecco un modo per cambiare strada e capire cosa fare da grandi.