lunedì 26 agosto 2024
Nel cuore dell'Asia, fra Afghanistan, Tagikistan, Pakistan e Cina, la vallata scavata dal fiume Pamir è uno di quei luoghi di confine più affascinanti per la posizione, la natura e la storia

Le zone di confine sono sempre sorgente di grande fascino per i viaggiatori. Sono qualcosa di strano, i confini, per certi versi profondamente innaturale, per altri quasi un concetto che sembra pertinenza dell’indagine filosofica. Un confine è una linea dove in pochi metri il mondo cambia completamente, dove in un’istante non sei più a casa tua, ma sei uno straniero, dove all’improvviso nessuno può più capirti, a volte cambia persino l’ora del giorno, altre volte ancora da che si è al sicuro, ci si trova improvvisamente in pericolo.

Uno dei confini più affascinanti che ho incontrato nei miei viaggi è il cosiddetto “corridoio del Wakhan”. Siamo nel sud del Tagikistan, nel cuore dell’Asia Centrale. Nella seconda metà dell’800, questa regione del mondo fu al centro di una delle più romanzate contese geopolitiche della storia contemporanea, ovvero l’espansione asiatica di due dei più grandi imperi coloniali del tempo, l’impero britannico e l’impero russo. Gli inglesi occupavano tutto il sub continente indiano, e controllavano de facto ciò che oggi corrisponde all’Afghanistan. A Nord l’impero Russo iniziava la sua espansione in Asia centrale alla ricerca delle risorse che non potevano più importare dall’America precipitata nel baratro della guerra civile (che noi qui conosciamo come “guerra di secessione) e con l’intento di arginare l’influenza britannica in Asia. Da questo nacque uno scontro a distanza che sarebbe passato alla storia come “il Grande Gioco”, e che avrebbe influenzato moltissimo la cultura, la letteratura e la politica del tempo. I russi in breve tempo conquistarono tutti i Khanati che al tempo si estendevano sui territori di quelli che oggi sono gli “-stan” dell’Asia Centrale, fino ad arrivare nel sud del Tagikistan, ormai prossimi allo scontro frontale con i britannici, posizionati giusto al di là delle montagne dell’Hindukush. Ai tempi non esisteva l’espressione “guerra mondiale”, ma uno scontro tra impero russo e impero britannico avrebbe potuto facilmente significare qualcosa del genere, in quelle circostanze. Fu lì che nacque il “corridoio del Wakhan” una striscia di territorio afghano nella vallata scavata dal fiume Pamir che poi a sua volta forma il fiume Panj, il principale tributario dell’Amu Darya, fiume di importanza storica nel cuore dell’Asia Centrale.

Il corridoio del Wakhan è il prototipo della zona cuscinetto tra due grandi imperi, largo appena qualche decina di km, in cui in pochissimo spazio si incontravano l’Impero russo, la Cina, l’Afghanistan e l’India occupata dagli inglesi. Nei 150 anni successivi accadde di tutto: la Russia divenne Unione Sovietica, l’India divenne indipendente, nacque il Pakistan, la Cina conobbe la rivoluzione comunista, e l’Afghanistan lo scoppio della guerra civile nel 1978, cui si aggiunse, proprio lungo il confine segnato dal fiume Panj, l’invasione dell’Unione Sovietica, che 10 anni dopo si disgregò dando vita a entità statali autonome che mai erano esistite prima del 1991, tra cui, appunto, il Tagikistan, che a sua volta conobbe una violentissima guerra civile nei primi anni della usa esistenza, tra il 1992 e il 1997, giusto in tempo perché poi l’Afghanistan venisse invaso dagli stati Uniti e, nel 2021 ripreso interamente dal controllo dei talebani.

Quando si percorre la riva destra del fiume Panj è impossibile non restare impressionati dal fatto che un turbolento torrente di montagna, facilmente attraversabile a piedi in gran parte del suo corso, sia oggi uno dei confini più delicati del mondo, e in generale uno spartiacque tra due universi culturali lontani anni luce. Da una parte il Tagikistan che porta con sé l’eredita delle infrastrutture basilari portate fin nelle montagne dall’Urss, case in muratura, corrente elettrice, e persino qualche breve tratto di strada asfaltata su cui si alterna un continuo via vai di camion e macchinari intenti ad ammodernare la strada spinti dagli investimenti cinesi per la “Belt and Road” di cui parlavamo nella scorsa puntata di questa rubrica. A pochi metri di distanza, sull’altra sponda del fiume case di fango, senza corrente elettrica, e mulattiere percorse ancora oggi da contadini in sella agli asini, villaggi su cui svetta la neonata bandiera della Repubblica Islamica dell’Afghanistan. Tutto intorno, montagne verticali, insormontabili, che si lanciano verso il cielo fino a superare i 7000 metri, quelle sì, vero confine pensato da madre natura per isolare chiunque si fosse mai stabilito a vivere qui, in questa terra ai limiti delle possibilità umane. Da una parte il Pamir, dall’altra l’Hindukush, e a un tiro di schioppo le vette del Karakoram e dell’Himalaya.

Nel corridoio del Wakhan non esistono vere e proprie città, solo qualche piccolo villaggio. È una delle zone più povere dell’Asia Centrale, dove è difficilissimo fare arrivare qualunque cosa per via della sua posizione estremamente remota e scarsamente accessibile. Poche famiglie di contadini vivono di sussistenza in simbiosi con i ritmi della natura, si sopravvive in larga parte grazie alle rimesse di qualche parente emigrato in Russia. A studiare le origini delle popolazioni di questa parte di mondo c’è da perdersi fino agli antichi persiani, che furono il primo grande impero a mettere piede su questo incredibile crocevia dell’Asia, un tempo percorso dai monaci buddhisti, oggi diviso tra i misulmani sunniti dell’Afghanistan e i più moderato sciiti Ismailiti del Pamir, la cui tradizione spirituale ha profondi legami con la cultura Sufi, e che differisce moltissimo dal resto della popolazione Tagika. In particolare, gli abitanti del corridoi del Wakhan, i Wakhi, parlano una lingua che alcuni ritengono essere vecchia 4000 anni e strettamente imparentata con il persiano antico. Eppure questi popoli, a seconda della riva del fiume in cui si sono venuti a trovare nel corso della storia, hanno avuto destini decisamente diversi. È questo, in definitiva, a rendere così affascinante questo confine.

Una linea di terra dai paesaggi meravigliosamente pacifici costantemente investita dalle burrasche della storia, sotto lo sguardo silenzioso e paziente di montagne a un passo dal cielo, uniche eterne testimoni di storie incredibili che solo pochi fortunati viaggiatori hanno la fortuna di poter ascoltare.

Chi è

Stefano Tiozzo, nato a Torino nel 1985, fotografo paesaggista, documentarista, storyteller e scrittore. Laureato in Odontoiatria e protesi dentaria, dopo nove anni di professione abbandona la medicina per dedicarsi a tempo pieno alla sua vocazione che diventa la sua specializzazione: viaggi e natura. Il suo canale YouTube è uno dei principali canali di viaggio in Italia, conduce workshop fotografici in tutto il mondo, con un focus particolare sui viaggi nell'Artico, dedicati principalmente alla caccia all'aurora boreale. Tiene regolarmente corsi di fotografia e negli anni ha collaborato con diversi brand, numerosi enti locali del turismo italiani e per la Commissione Europea. Ha pubblicato tre libri per Ts Edizioni, il best seller “L’anima viaggia un passo alla volta” (2020), “Una scelta d’amore” (2021) e “L’altra faccia della Russia” (2022). Nel 2019 ha fondato “Seva project”, un progetto di documentario ambientale volto a finanziare progetti di riforestazione nel Sud del mondo, giungendo a piantare oltre 8000 alberi.

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