domenica 1 settembre 2019
Il fondatore di Sant'Egidio: non canonizzo una formula, ma quella che sta cercando il premier incaricato è l’unica possibile, andare alle elezioni non serve
Andrea Riccardi (Ansa)

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Buon governo. Parte da queste due parole la riflessione del professor Andrea Riccardi. «In Italia sottolinea - ce n’è bisogno come il pane. Il Paese non può restare senza pilota». Ma il fondatore di Sant’Egidio, che fu ministro nel governo Monti, è abituato a motivare le sue affermazioni. E lo fa in questa intervista ad Avvenire in cui non sottovaluta certo i pericoli insiti nell’operazione che sta faticosamente nascendo. Ma alla quale, ricorda, non c’è alternativa se non il voto.

Professore, sono in molti a sottolineare che tra Pd e M5s sono di più le differenze che le affinità. Che governo si può fare in questo modo?

L’alleanza tra forze antitetiche o lontane fa parte della storia della democrazia e anche in Italia abbiamo visto diverse volte coalizioni tra forze diversissime che alla fine hanno prodotto una buona politica. Il problema non è la diversità, ma la capacità di produrre un buon governo. E farlo in un quadro democratico e in un momento in cui l’Italia non può essere senza pilota, perché stiamo entrando in un ciclo internazionale, economico e politico, molto turbinoso. C’è urgenza, dunque. Abbiamo votato un anno e mezzo fa. Occorre ricercare in Parlamento le soluzioni possibili. Tra l’altro sono stanco di sentire parlare dei deputati e dei senatori della Repubblica come dei 'poltronisti', perché allora tutti abbiamo un posto e tutta la società è poltrona. Dobbiamo ritrovare il rispetto per le istituzioni.

È sicuro dunque che le elezioni siano da evitare?

Non canonizzo una formula. Ma credo che la formula che Conte sta cercando sia l’unica possibile. Certo, c’è l’alternativa del voto. Ma andando alle urne si dichiara che le forze maggiori sono incapaci di dare un governo. E dopo le elezioni chi ci assicura che lo sapranno fare? Per il bene del Paese ci vuole stabilità. Abbiamo bisogno, da una parte, di buon governo e, dall’altra, di un lavoro che deve muovere tutte le forze sociali e la Chiesa stessa. Uscire dalla logica della plebe (e quindi del plebiscito), dell’odio, del nemico da abbattere, del senso di esclusione e della contrapposizione. Così si distrugge il Paese, perché si lacera sempre più il suo infragilito tessuto sociale.

La sensazione è però che buon governo e stabilità dipenderanno in gran parte dall’evoluzione di una forza come 5stelle che fin qui si è connotata proprio come forza instabile, sia per la sua polemica antisistema, sia per i continui voltafaccia sui singoli dossier.

Non sono capace di prevedere il futuro. Ogni novità è un azzardo. 5stelle è una forza giovane che nasce dalla protesta, dalla volontà di cambiamento, dal desiderio di uscire dai quadri politici. Ha personale giovane e senza grande esperienza politica. A questa giovinezza si debbono alcune fibrillazioni. Ma se tanti italiani li hanno votati, ci sarà motivo di tenerne conto. In questo caso guardo al voto, al numero dei parlamentari e non ai sondaggi cangianti. L’Italia è una repubblica parlamentare, c’è la mediazione della politica, che fa maturare, che fa prendere responsabilità. Sono stato colpito dai 14 milioni di italiani interessati a seguire in televisione il dibattito al Senato sulle dimissioni di Conte. Dobbiamo auspicare che Pd e M5s superino le difficoltà e si misurino con i problemi veri, cioè con il programma di governo.

A proposito del programma di governo, quali temi assolutamente non devono mancare?

Non li debbo dire io, ma le forze politiche. Ricordo solo che la bussola deve essere il bene comune e una visione per il Paese. Occorrerà rammendare le periferie, dare lavoro ai giovani, pensare alla famiglia e alla denatalità. Trovo ad esempio assurdo che si parli degli sbarchi con enfasi, e poi ci si dimentichi che 150mila italiani lasciano il Paese ogni anno senza che nessuno si chieda perché se ne vanno. Se dobbiamo mettere 'prima gli italiani', mettiamo prima questi 150mila compatrioti. Non credono più nel nostro Paese? E questa diserzione dell’Italia non è uno schiaffo che fa male? Ecco perché senza governi che durano e che sono a servizio del bene del Paese e non del successo elettorale dell’uno e dell’altro non si costruisce niente. Torno a ripeterlo: ci vuole stabilità, anche per mettere mano a un’impresa di più lungo periodo, alla base, ma ugualmente urgente.

Quale?

C’è una crisi profonda. La dissoluzione del 'noi', il senso di essere marginali e soli nell’Italia dei piccoli centri, e nelle periferie delle città. C’è un tessuto umano e comunitario da ricostruire. E anche questa è una sfida. Per i sindacati e per tutte le forze sociali. Ma chi ci mette mano? Gli italiani sono troppo lontani gli uni dagli altri: manca una solidarietà vissuta.

È un impresa per tutti, lei dice. Chiesa compresa?

Chiesa compresa, certo. Qualcuno ha notato un silenzio dei vertici di fronte alla crisi, forse comprensibile perché la Chiesa non vuole immischiarsi nel gioco dei partiti, ma una parola in più serve all’umanità italiana. Non solo una parola dei vertici, ma una parola che contagia gli italiani nella vita, rasserena e dà speranza. C’è da ricostruire una cultura di popolo perché tanta gente sta vivendo una crisi di spaesamento che è anche religiosa. E c’è da ricostruire anche una cultura sociale degli italiani.

Cosa può fare dunque la Chiesa?

Qui la Chiesa ha un grave compito e non si può contentare di stare nelle sue istituzioni. La misericordia è generatrice di un modo di vedere l’altro. Questo odio che c’è nel nostro Paese, questo egocentrismo che tralascia gli altri, questo senso di paura sono l’espressione estrema di una scristianizzazione del Paese. Poi possiamo anche ricorrere ai simboli religiosi o ai simboli magici, ma c’è questa scristianizzazione profonda e dobbiamo farci i conti.

Che cosa suggerisce?

La Chiesa è una delle poche forze nazionali e ha oggi una responsabilità nei confronti del Paese più grande rispetto al passato. Da un lato, dunque, non bisogna dimenticare la grande tradizione politica dei cattolici (quando sento dire con disprezzo che stiamo tornando ai tempi di Fanfani, lo prendo in realtà come un augurio. Magari. Amintore Fanfani è uno che ha dato casa e fatto uscire dalla povertà non so quante centinaia di migliaia d’italiani). Dall’altro bisogna ridare speranza e avere il coraggio di ricostruire un tessuto umano e una cultura di popolo.

Che cosa intende per cultura di popolo?

Solo una società più vitale e coesa saprà resistere alle pulsioni aggressive e plebiscitarie. Perché attraverso una cultura di popolo si guida, si orienta e s’indirizza. Non si tratta tanto di dare indicazioni di voto, quanto di far sì che la fede diventi cultura, come hanno detto Giovanni Paolo II e Bergoglio. E quando dico cultura, non intendo accademia, ma pensieri, sentimenti e vita quotidiana di un popolo. Il cristianesimo è generativo del vivere insieme agli altri, a partire dalla famiglia. E dunque della buona politica e del buon governo.

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