Una motovedetta regalata dall'Italia alla Libia e ora "gestita" dalla Turchia di Erdogan - Collaboratori
Dopo aver ottenuto dall’Europa le chiavi per la gestione del flusso migratorio lungo le rotte orientali (6 miliardi di euro per trattenere in Anatolia milioni di profughi siriani), ora il presidente Erdogan ha tra le mani un’altra potente arma di ricatto: il controllo della cosiddetta Guardia costiera libica.
Le prime tragiche avvisaglie sono arrivate con le ultime due stragi in mare: 15 migranti dispersi giovedì e altri cinque ieri a un’ora di navigazione da Lampedusa. In entrambi i casi i guardacoste libici non hanno avviato alcun intervento. Erano impegnati con i nuovi addestratori. Le dichiarazioni e le immagini che arrivano da Tripoli sono uno smacco soprattutto per l’Italia.
Le motovedette donate dai governi Gentiloni e Conte da alcuni giorni vengono adoperate da istruttori turchi che insegnano ai colleghi libici come pattugliare l’area di ricerca e soccorso. Una zona "Sar" la cui istituzione è stata progettata e pagata dall’Italia. Anche gli interventi dei pattugliatori di fabbricazione italiana saranno decisi in accordo con le forze armate turche, che senza investire un centesimo dispongono adesso di flotta supplementare nel Mediterraneo centrale.
A quanto riferiscono svariate fonti in Turchia e in Libia, Tripoli e Ankara decideranno d’intesa quando intercettare i migranti in mare e quando invece lasciarli raggiungere le coste italiane. «Se davvero Erdogan potrà disporre liberamente della cosiddetta Guardia costiera libica, il rischio è che ai traffici disumani seguano nuove stragi in mare e che la Turchia possa utilizzare i flussi migratori come arma di ricatto anche sulla rotta centrale del Mediterraneo», commenta Alessandra Ermellino, esponente del Gruppo Misto in Commissione difesa alla Camera, e autrice di numerose interpellanze sul caos libico.
Il 27 giugno 2018 l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, ripercorrendo le orme del predecessore Minniti, aveva annunciato: «Doneremo altre 12 motovedette alla Libia con conseguente formazione degli equipaggi per continuare a proteggere vite nel Mediterraneo».
Il 4 novembre dell’anno dopo 10 pattugliatori sono stati consegnati. In cambio l’Italia non ha mai ottenuto nessun reale controllo sull’operatività di questi mezzi, la cui manutenzione è assicurata e pagata attraverso una "nave officina" della Marina militare italiana stabilmente presente nel porto della capitale libica. I “memorandum d’intesa” con Tripoli, l’ultimo dei quali rinnovato lo scorso 7 febbraio, e il rifinanziamento dell’impegno italiano votato dal parlamento il 16 luglio scorso, rischiano ora di rivelarsi un boomerang. Perché saranno le autorità di Tripoli in accordo con Ankara a spadroneggiare nella Sar libica senza rendere conto a Roma.
Tra il 2017 e il 2018, «la Guardia Costiera italiana ha sostenuto la Libyan Coast Guard con 1,8 milioni di euro», si legge in una nota della Commissione Ue, datata 5 ottobre 2020. Documento che per la prima volta confermava in via ufficiale come l’istituzione dell’ampia area di ricerca e soccorso libica si devono al governo Gentiloni (2017) «con la notifica formale della Libia della loro area Sar all’Organizzazione marittima internazionale e con la conduzione di uno studio di fattibilità per l’istituzione di un centro di coordinamento del salvataggio marittimo libico». Ancora una volta, progettato e pagato da Roma.
Erdogan sa che il governo Conte prima di alzare la voce dovrà fare i conti. Secondo l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal), l’analisi dei dati Istat sul commercio estero «evidenzia che da novembre del 2019 a luglio del 2020 sono stati esportati in Turchia più di 85 milioni di euro di “armi e munizioni”, una cifra che costituisce il massimo storico dal 1991». E che quest’anno potrà essere superata. Solo nel primo semestre del 2020 «l’export si attesta a quasi 60 milioni di euro. Si tratta in gran parte di munizionamento pesante».
Gli effetti sui migranti già si contano: due stragi in due giorni. Un barchino con a bordo 20 persone è naufragato ieri a 30 miglia da Lampedusa, in acque internazionali. Un motopesca di Mazara del Vallo è intervenuto salvando 15 persone: tutti libici salpati da Zawyah. Tra essi anche due bambini che hanno perso la mamma. Due dei superstiti, porati a Lampedusa, sono risultati positivi al Covid. Il giorno precedente al largo della costa di Sabratha, in Libia, «sono morte almeno 15 persone», spiega l’Organizzazione mondiale dei migranti. In entrambi i casi, nessuna motovedetta libica si è mossa dal porto di Tripoli.
Una debolezza crescente, quella italiana, che pesa anche sul negoziato per la liberazione dei 18 pescatori siciliani in ostaggio del generale Haftar in Cirenaica. La Farnesina ha assicurato che stanno bene e al momento contro di loro non sono state mosse accuse formali. Segno che la trattativa e aperta, ma lontana da una soluzione imminente.