domenica 11 febbraio 2024
Spazi di ascolto, incontri con gli psicologi, laboratori aperti nelle città: da Bologna a Bari, la mappa degli atenei. Il pedagogista D'Alonzo: serve una didattica più attiva, sin dalle superiori
undefined

undefined - undefined

COMMENTA E CONDIVIDI

Studiare in vista di un esame, per molti ragazzi, è diventato un problema. In alcuni casi, addirittura un incubo in grado di generare ansia, depressione e stress, sentimenti che affliggono gli studenti universitari più dei loro coetanei lavoratori. Così, nell’ultimo mese, in migliaia hanno chiesto a gran voce fondi per istituire presìdi psicologici permanenti in ogni ateneo. Nuovi finanziamenti, ancora, non sono arrivati ma il grido dei ragazzi, alto da anni, non è rimasto inascoltato. A prendere contromisure al dilagante disagio giovanile (un universitario su tre soffre d’ansia, secondo i dati Istat) sono decine di università in tutta Italia. Spesso in completa autonomia.

L’Aldo Moro di Bari, prima fra tutte, ha introdotto il bonus psicologo da 300 euro già a novembre dello scorso anno, senza attendere il contributo statale. «A Bari – assicura la professoressa Antonietta Curci, psicologa e responsabile del servizio di counseling d’ateneo – c’è una sensibilità particolare e gli studenti sono entusiasti». A loro, l’Aldo Moro ha dedicato i classici percorsi psicologici gratuiti da quattro sedute che sono frequentati, in nove casi su dieci, da studenti con sintomi di ansia e depressione. Ma non solo: per la gestione dello stress da esame, l’ateneo ha costruito spazi dedicati al benessere e ha dotato le aule di arredi «per decomprimere l’ansia pre o postesame ».

L’affanno per le prove, però, è solo la punta dell’iceberg. « Agli studenti universitari – ragiona Curci – viene chiesto di essere performanti. Ma anche il Covid è stato un fattore importante: hanno sperimentato la solitudine e la privazione delle attività sociali». Da Bari, perciò, denunciano: «Ci vogliono i finanziamenti». «Il nostro obiettivo è creare le condizioni affinché, quando si parla di ragazzi e della loro condizione psico-fisica, non si debba sempre e solo rincorrere l'emergenza – aveva spiegato a settembre la ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini –. Episodi di disagio si moltiplicano di giorno in giorno, molti ragazzi ancora scontano gli effetti di un lockdown che purtroppo ha rubato tempo e spazi alla socialità e al confronto».

La salute mentale non è solo una questione di bonus, tanto più che i fondi dello Stato per il sostegno psicologico sono in calo da due anni a questa parte. Per affrontare il disagio psicologico servono ricerca e collaborazione del territorio. Lo sanno bene a Bologna, dove la nuova frontiera è l’assistenza diffusa. L’ultimo esperimento dell’università ha preso il nome di Recovery college, ma si tratta in realtà di una scuola itinerante e gratuita per diventare «studenti del proprio benessere». La particolarità? Il coinvolgimento di tutta la città. Inaugurato lo scorso anno dall’azienda Usl locale e dall’Alma Mater felsinea, il nuovo spazio formativo ha già disseminato tredici laboratori per le vie del centro, allo scopo di avvicinare i cittadini a caregiver e professionisti. E promette di far in-contrare ancora associazioni, studenti e strutture sanitarie del capoluogo per parlare di salute mentale sotto ai portici.

A Napoli, invece, la lotta al disagio psicologico passa dalla prevenzione. Con la nascita dell’Osservatorio nazionale per la salute mentale e comportamentale, agli studenti dell’Università Suor Orsola Benincasa – e di cinque istituti superiori – viene oggi offerto un servizio di screening gratuito per intercettare i primi sintomi depressivi. Con il chiaro intento di produrre dati sempre più precisi. « I numeri sono sottostimati – si legge in una nota dell’Osservatorio – perché il problema riguarda almeno l’80% della popolazione».

Ma dove non arriva la legge o la ricerca, in assenza cioè di attenzioni politiche, sorgono spesso iniziative motu proprio. Anche negli atenei più periferici. « Urbino è una realtà piccola – spiega Chiara Angione, psicologa responsabile dello sportello dell’università marchigiana – ma cerchiamo di aiutare tutti: dallo studente al professore ordinario, passando per il personale tecnico». Così, oltre alle quattro sedute gratuite, da anni sono attivi nell’ateneo spazi di ascolto dedicati alla denuncia di stalking o molestie e percorsi per prevenire stress post-traumatici e ansia.

«A volte – racconta Angione – i ragazzi parlano delle eccessive aspettative attorno alla loro carriera. A volte dei problemi di alimentazione o della perdita del sonno. L’importante è che scatti in loro la domanda: C’è qualcosa che non va?».

D'Alonzo: «Si parta dalle superiori. Serve una nuova didattica»

La scuola, almeno fino alle superiori, deve essere un vestito cucito sulle misure di ogni studente. Così la pensa Luigi D’Alonzo, professore ordinario di pedagogia all’Università Cattolica di Milano. Ma l’università, della cui freddezza si lamentano migliaia di studenti, è un’altra cosa.

Professore, gli universitari sono più depressi e in ansia rispetto ai coetanei lavoratori. C’è un problema di disumanizzazione negli atenei italiani?

Il problema non è la disumanizzazione. Ci vuole uno scatto di consapevolezza: l’università non è la scuola secondaria, non può esserci lo stesso sostegno. E non tutti riescono a sopportare le richieste di autonomia e di autodeterminazione. Del resto, come fa un professore a curare le relazioni interpersonali con tutti e con ciascuno quando ha a che fare con una platea di 80 persone e più?

Il nostro non è, come accusano molti studenti, un modello ancora troppo legato al merito?

Parliamo chiaro: un ponte deve stare in piedi e un medico deve saper distinguere un problema alla milza da uno al cuore. Non possiamo scherzare su questo. Il problema non sta nel merito ma nella competenza e questa esige il riconoscimento dei propri limiti. Conoscendoli possiamo anche migliorarli, ma non possiamo fare tutto nella vita. Lo sapevano anche i greci.

Eppure, certi universitari con disturbi dell’apprendimento faticano a tutelarsi in sede d’esame. C’è del lavoro da fare nella formazione dei docenti?

In Italia sono 40mila gli studenti con disabilità e con Dsa, e moltissimi hanno esperienze edificanti e positive. Dobbiamo stare attenti: il problema non è la mappa concettuale a supporto dell’esperienza d’esame, ma l’eccesso di mappe. Occorre crescere rendendosi sempre più autonomi da questi strumenti. Lo dico per il bene dei ragazzi. Che ci sia un lavoro da fare è indubbio ma, di fronte alle certificazioni, oggi le attenzioni ci sono eccome.

A quali attenzioni fa riferimento?

Ai servizi per l’inclusione e per l’integrazione, che si stanno sempre più allargando ai bisogni educativi speciali. Non si parla solo di ragazzi con disabilità o disturbi specifici dell’apprendimento, ma di tutti gli studenti con bisogni speciali. Ormai a ognuno di loro vengono offerti supporti relativi alle abilità di studio e riabilitativi, inoltre viene garantita la mediazione fra servizi e docenti. A mio parere, tutti gli atenei hanno preso coscienza di queste problematiche poiché non è più possibile ignorare la fragilità di molti studenti e studentesse.

Questa fragilità ha radici nella scuola dell’obbligo?

Ovviamente non è responsabilità solo della scuola, tuttavia questa mostra evidenti segni di difficoltà. Gli insegnanti spesso non sanno come agire stretti fra le “esigenze curriculari”, i bisogni sociorelazionali e la complessità del mondo in cui viviamo. I linguaggi cambiano vertiginosamente e gli strumenti comunicativi diventano presto obsoleti. Le modalità trasmissive tradizionali non funzionano più con i ragazzi, dobbiamo acchiapparli in qualche modo o sfuggono, manifestando anche senza freni il loro malessere.

Che modo suggerisce?

Serve una didattica più attiva, collaborativa e laboratoriale. In più, in classe hai 25 allievi ma non sono tutti uguali: hanno abilità e competenze differenti e occorre soddisfare pedagogicamente tutte le loro esigenze. Se la scuola, anche la secondaria, non si pone come obiettivo l’autonomia e la promozione umana degli studenti, si aggancia a cose inutili come il voto. Occorrerebbe arrivare all’università sapendo ormai come studiare, come apprendere, come processare contenuti e abilità. Ma non sempre è così. Il disagio giovanile in questo momento è molto ampio.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: