
Finanzieri davanti al cargo sequestrato a Bari - Gdf
Un container con un carico del valore dichiarato di appena 80 euro. Più che sospetto. I funzionari dell’Agenzia delle Dogane e i militari della Guardia di Finanza di Bari hanno voluto vederci chiaro. Quell’enorme scatolone giallo giunto mercoledì nel porto di Bari dalla Lituania 'puzzava'. E non poco. «Non trattandosi tecnicamente di importazione ma di acquisto intracomunitario – spiega il funzionario delle Dogane, Cosimo Serafino –, non vi era una dichiarazione doganale di importazione da poter controllare, quindi si è trattato di pura analisi dei rischi sulla documentazione a corredo del container quale la polizza di carico che riportava 'indumenti usati' e fattura commerciale di cessione per 80 euro». E questo ha fatto scattare i controlli.
Prima l’indagine con lo scanner e poi l’apertura del container, hanno confermato i sospetti. All’interno ben 24 tonnellate di abiti usati, sporchi, maleodoranti, ammassati in balle disordinate legate con del nastro. Un carico mai visto nel porto di Bari. Una palese violazione delle norme, ancor più in questo periodo di pandemia. Gli abiti, come ci spiegano gli investigatori, non e- rano igienizzati, come prevedono le norme sulle importazioni di queste merci. Non poteva in alcun modo essere considerato 'rifiuto cessato' (' end of waste'), condizione che si ottiene soltanto mediante specifiche procedure. Si tratta, quindi, di traffico illecito di rifiuti. Di questo è accusato l’importatore, un imprenditore di Ceglie Messapica, che non si occupa del trattamento di rifiuti ma è una semplice partita Iva, attiva nel settore dell’abbigliamento, in particolare nella vendita nei mercati. Era questa la destinazione delle 24 tonnellate? I sospetti degli investigatori sono aumentati quando hanno scoperto che il trasporto era costato all’imprenditore brindisino ben 2.500 euro. Come giustificare un tale spesa per materiale del valore di appena 80 euro?
Erano sporchi, maleodoranti, ammassati in balle disordinate all’interno di un cargo fermato a Bari. Proveniva dalla Lituania.
La Commissione Ecomafie accende un faro sulla vicenda
Un affare in perdita? Il sospetto è che l’imprenditore volesse mettere in commercio gli abiti dopo un rapido lavaggio, senza la sanificazione obbligatoria. Oppure rivenderli ad altri. Un’ipotesi che preoccupa, soprattutto in questo periodo di difficoltà economica per tante famiglie, spinte dalla pandemia nella povertà, e quindi alla ricerca di beni a basso o bassissimo costo. Come gli abiti usati. Senza poter controllare l’origine. Ma il sequestro di questo carico conferma come il mercato degli abiti usati sia terreno di caccia per imprenditori fuori legge e per la criminalità organizzata.
Non è un caso che la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, la 'Commissione ecomafie', abbia aperto un focus proprio sul mercato degli abiti usati, con varie audizioni, e che sfocerà presto in una relazione. E si è subito interessata al sequestro di Bari. Anche perchè è in assoluto il primo riguardante un’importazione, mentre ce ne erano già stati simili di abiti destinati all’esportazione. «La gestione illecita degli indumenti usati, così come di altri rifiuti – ci spiega il presidente, Stefano Vignaroli – permette di ottenere grandi profitti e proprio per questo attira interessi illeciti, compresi quelli della criminalità organizzata. Allo stesso tempo, è un settore importante per l’economia circolare.
Siamo al lavoro per approfondire gli illeciti e gli anelli della filiera più a rischio. L’obiettivo del nostro lavoro è rendere più trasparente la filiera e 'ripulire' il settore dall’illegalità, a beneficio degli operatori onesti e della collettività ». In Italia, in particolare in alcune province del Sud, esistono dei centri che ricevono e trattano grandissime quantità di indumenti usati. Possono essere trattati a norma di legge, sanificati e sottoposti a un processo che li rende riutilizzabili. Ma c’è anche una parte che finisce in filiere improprie. In regime ordinario una parte dell’outputdi questi impianti finisce all’estero in mercati come Nord Africa e Est Europa, anche ai margini della legalità, senza i costi del trattamento. Esportazioni che non poche volte sono state individuate e bloccate. Ma ora c’è la novità di Bari. Il sospetto della Commissione è che la fase dell’emergenza Covid abbia ridotto significativamente le filiere di afflusso di indumenti usati, per difficoltà logistiche ma anche perchè la crisi economica porta a buttare meno. Così le imprese si rivolgono altrove. Anche perchè se diminuisce la propensione delle persone a buttare, aumenta la propensione a comprare l’usato. E questo favorisce chi ci vuole fare affari.