«I punti di affondamento delle navi dei veleni, 5 o 6, sono segnati su carte nautiche che consegnai al povero capitano De Grazia poco prima che morisse». Da un’imprecisata località africana Aldo Anghessa, ex agente dei servizi al centro di mille misteri (nome in codice Alfa Alfa), svela ad Avvenirei traffici di oggi e di ieri. Con la memoria lunga e la battuta affilata, parla di armi, rifiuti tossici e scorie radioattive. Affari oscuri che, dice, lui e i suoi uomini tentarono di illuminare nei primi anni ’90.
«Poi fummo fermati da un bombardamento giudiziario», è la sua versione. Anghessa ammette di essere «tecnicamente latitante: sono stato arrestato diverse volte, ma condannato una volta sola a Brescia. Devo scontare due anni e mezzo per delle armi: io le feci ritrovare, ma mi accusarono di traffico». Il suo nome sbuca anche da un’inchiesta di vent’anni fa. Quando viene a sapere che a Reggio Calabria il pm Francesco Neri, tramite il capitano della Marina Natale De Grazia, dà la caccia alle 'navi a perdere', Anghessa – in quel momento ai domiciliari – si fa avanti. Racconta di aver indagato «sul traffico internazionale di rifiuti tossico- nocivi e radioattivi». Fa nomi di aziende e faccendieri, cita banche e conti correnti. Davanti alle bocche aperte degli investigatori, per più di 8 ore, argomenta che il business è gestito da una «lobby affaristico-criminale» legata ai clan e guidata da «soggetti iscritti a logge massoniche italiane ed estere»: le spedizioni partono dal porto di Marina di Carrara e approdano a Sud. Per poi rimbalzare via mare fino in Africa.
In Nigeria, a Koko, dove gli 007 italiani nel 1988 scoprono una discarica con 10 mila tonnellate di veleni, poi rimpatriati a spese dei contribuenti. O nell’ex Sahara spagnolo, scelto per la maxi discarica sotto la sabbia del famigerato progetto Urano («La madre di tutti i traffici» dice Anghessa). «Tutto era gestito da piduisti di chiara fama – spiega – ma oggi i traffici continuano. Tra Mauritania e Mali ho incrociato gli stessi personaggi di allora. Non credo fossero lì per turismo». Secondo molti indizi, alcuni carichi si 'persero' invece nel Mediterraneo. Il 6 dicembre ’95, come risulta da verbale, Anghessa consegna a De Grazia «una mappa nautica dell’Istituto idrografico della Marina rappresentante la Calabria e lo Ionio, con segnate le presenze di alcune navi in epoche ben precise tra cui la Euroriver, la Paloma e la Irini, facenti capo alla citata organizzazione e adibite a trasporto di armi, droga e rifiuti».
Anghessa aggiunge che «c’era anche la Rigel», la nave affondata di fronte a Capo Spartivento. Per trovare i relitti, dice, «basterebbero prospezioni sui fondali». Che nessuno ha mai fatto. L’unico relitto fu ispezionato nel 2009 al largo di Cetraro: non era quello della famigerata Cunsky, bensì di un vecchio piroscafo (ma una prima ricognizione avvistò fusti nella stiva). Il 12 dicembre ’95 De Grazia muore – «per causa tossica» secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta – mentre si reca a La Spezia per indagini. Il pool investigativo si scioglie, l’inchiesta evapora e i misteri restano. «Le mappe in realtà erano due, ma non so che fine abbiano fatto» sottolinea Anghessa. Alcune note dei servizi, top secret fino al 2014, dicono che le scorie potrebbero essere finite anche in Aspromonte, con il placet della ’ndrangheta. Fonti investigative di alto livello hanno spiegato ad Avvenire che non sono mai stati trovati riscontri.
E nemmeno Anghessa ci crede. «Difficile trasportare contenitori in montagna. Più facile scavare con una ruspa e seppellirli. Come fece la Sacra Corona Unita. I pugliesi spedivano i rifiuti nei Balcani, ma una volta tennero tre camion di scarti radioattivi ospedalieri e li interrarono per ricattare l’ente committente, costretto a pagare il pizzo 'nucleare' una volta al mese. Cercammo nel Brindisino, senza trovar nulla». Ma a Zurigo, nel ’91, Anghessa non restò a mani vuote: «Il console onorario di uno stato sudamericano, un pezzo grosso svizzero, ci propose 29 chili di 'yellow cake', la polvere gialla di uranio, per 18 milioni di dollari. In hotel ci presentò un campione, il carico era in un’auto. Avvertimmo la polizia svizzera, che era in imbarazzo ma alla fine intervenne. In manette finì anche un sardo: disse di essere lì per verificare che ci fosse la parte spettante ai politici».
Anghessa mise a verbale che la Svizzera fu teatro anche di un altro sequestro: 600 kg di arsenico forse destinato alla Libia per la produzione di gas tossici. «Lo scoprimmo nei caveau del porto franco dell’aeroporto di Ginevra, che è un po’ come la caverna di Alì Babà: ci si può trovare di tutto». Dietro i traffici scorrono fiumi di denaro. Anghessa parla di 200 dischetti frutto dell’hackeraggio delle note della spesa del network criminale. «C’erano movimenti bancari per 20 mila miliardi di lire. Chi tentò di decifrarli finì in un mare di guai».
Nonostante i 72 anni, l’ex agente dice di essere «ancora in piena attività» e di aver constatato che «la Libia è un deposito d’armi a cielo aperto. Il mese scorso i commando francesi hanno trovato in Mali un camion lanciarazzi russo. Era parte dell’arsenale di Gheddafi, che si sta spargendo in mezza Africa ». Traffici bellici enormi, come quelli verso la Somalia su cui indagò Ilaria Alpi. «Li scoprimmo già nell’88. Depositai un rapporto sulla scrivania del prefetto Malpica, capo del Sisde. A volte lavoravo anche per loro…».