La cattura di Messina Denaro - .
«La sua latitanza è stata possibile grazie al sostegno di poteri forti, sia a livello sociale che politico». Sembra una frase di oggi, ricalcata sul concetto di «borghesia mafiosa» spiegato dal procuratore Maurizio De Lucia il giorno della cattura di Matteo Messina Denaro.
Invece fu pronunciata 22 anni fa da Giuseppe Linares, capo della squadra mobile di Trapani, dopo l’arresto di Vincenzo Virga, all’epoca braccio destro del boss preso lunedì 16 gennaio. «Ha saputo tenere i contatti tra imprenditori, politici e altri poteri impegnati nel riciclaggio di denaro sporco» aggiunse l’investigatore. A Trapani il tempo passa, ma le cose sembrano non cambiare mai. Il “contesto”, per dirla con Sciascia, assomiglia da decenni a una ragnatela in cui si impiglia chiunque cerchi giustizia, spesso con esiti mortali.
La striscia di sangue inizia 40 anni fa esatti, il 25 gennaio 1983, quando il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto (ricordato nell’anniversario dal presidente Sergio Mattarella) viene ammazzato da un commando mafioso mentre rientra a casa. Magistrato tutto di un pezzo, aveva osato ficcare il naso nelle numerose banche locali alla ricerca dei soldi dei boss. “Piccioli” che piovevano dal traffico di droga, di cui Trapani è stato uno snodo di livello mondiale.
Nel maggio 1985, in contrada Virgini di Alcamo, fu scoperta una raffineria capace di sfornare eroina per centinaia di miliardi di lire l’anno: quello che serviva per inondare il mercato europeo e nordamericano. Un mese prima del blitz era saltato in aria il giudice Carlo Palermo, appena arrivato a Trapani per proseguire le indagini del collega assassinato. I due avevano scoperchiato un enorme flusso di droga che partiva dalla Turchia, passava da Trento e sfociava in Sicilia. Sullo sfondo spuntava una piovra internazionale che allungava i tentacoli fino al traffico di armi, con la complicità di terroristi palestinesi, 007 e “fratelli” della massoneria deviata, già allora abituati a manovrare nell’ombra. Palermo sopravvisse all’attentato, ma a Pizzolungo morirono una giovane mamma, Barbara Rizzo, e i suoi due gemellini, che passavano per caso nel momento dello scoppio. La loro utilitaria fece da scudo all’auto del giudice, che dopo quasi 40 anni cerca ancora la verità. Durante la sua indagine personale un ex gladiatore gli ha rivelato l’uso clandestino di piste militari dismesse per trasportare armi e droga. Una di queste, quella di Milo, sarebbe stata “gestita” proprio dagli uomini di Virga.
Ma c’era anche Chinisia, vicino allo scalo di Birgi, dove Mauro Rostagno, il giornalista attivista che denunciava il malaffare di Trapani, vide e riprese un aereo militare mentre scaricava misteriose casse. La videocassetta sparì nel nulla, lui fu ammazzato nel 1988 su ordine sempre di Virga, condannato anche come mandante dell’attentato contro Palermo. Pochi mesi prima di morire Rostagno andò a parlare con Falcone: nessuno ha mai saputo cosa si dissero. Il magistrato, prima di morire a Capaci, stava ancora cercando di capire cosa ci facesse Gladio in Sicilia, e soprattutto a cosa servisse il Centro Scorpione, che da una pista improvvisata a Castelluzzo, dietro le spiagge di San Vito Lo Capo, faceva decollare un aereo ultraleggero capace di volare sotto quota radar.
Gladio nacque per contrastare un’ipotetica invasione comunista, ma a fine anni ’80 sarebbe stato ormai difficile immaginare uno sbarco dell’Armata Rossa in Sicilia. Fulvio Martini, direttore del Sismi, tentò di usare la base occulta per spiare la mafia. Fin troppo da vicino, secondo il Side, che nel 1991 annotò: “Tra gli anni 1987/1990 si sono svolti contatti anche fisici con elementi di spicco di alcune famiglie mafiose del Trapanese e la stessa dirigenza dello Scorpione”. Al comando del centro c’era l’agente segreto Vincenzo Li Causi, ucciso in Somalia il 12 novembre 1993 in circostanze mai chiarite. Lo aspettavano i pm di Trapani per contestargli i suoi silenzi sulla struttura.
Il primo, vero grande mistero di Trapani risale però al 27 gennaio 1976, 47 anni fa esatti: nella casermetta di Alcamo Marina furono trucidati due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. I loro colleghi arrestarono 5 giovani sulla base di confessioni - rivelerà un carabiniere nel 2008 - estorte con torture. Uno si suiciderà in carcere, uno ci morirà per malattia, gli altri saranno dichiarati innocenti 36 anni dopo. L’anno scorso la Commissione antimafia ha riaperto il caso: il delitto sarebbe stato commesso per coprire un traffico di materiale nucleare verso la Libia, i due militari ne avrebbero sfortunatamente intercettato il trasporto.
A sostenerlo è stato Antonio Federico, poliziotto molto ben informato: è lo stesso che nel settembre ’93, raccogliendo una soffiata, scoprì un arsenale nel villino di altri due carabinieri della zona. Tra armi e munizioni spuntò la foto di una biondina, rimasta ignorata per 30 anni. Recenti indagini della Dda hanno scoperto che l’immagine si sovrappone all’identikit della donna vista scendere dall’auto esplosa in via Palestro il 27 luglio 1993. Si tratterebbe di una signora bergamasca che si è riconosciuta nella foto, dicendosi però estranea all’attentato. Forse Messina Denaro, accusato delle grandi stragi di quell’oscuro periodo, ne sa di più. Nella prima udienza in cui è stato chiamato a deporre, però, ha lasciato la sedia vuota.