domenica 25 agosto 2024
Il filosofo ragiona sull'eredità della Settimana sociale di Trieste: «È tempo di riscoprire la dimensione architettonica dell'impegno: servono progetti e contenuti»
Michele Nicoletti

Michele Nicoletti - .

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«La partecipazione e l’impegno politico sono una cosa seria. L’esperienza di Trieste è stata di successo perché è stata preparata e affrontata con serietà, se questo approccio resterà intatto il percorso non potrà che dare buoni frutti». Michele Nicoletti, filosofo e ordinario presso l’Università di Trento, è stato tra i protagonisti della Settimana sociale, dove non ha esitato a parlare di riscoprire e rilanciare «l’amore per la democrazia».

Professore, dalla Settimana sociale sono trascorsi quasi due mesi: qual è il suo bilancio e quali frutti è lecito attendersi?

Quella di Trieste è stata un’esperienza particolarmente riuscita grazie alla qualità dei contributi, da quelli di apertura di Zuppi e Mattarella alla chiusura del Papa, ma anche per tutto il lavoro di preparazione, un metodo che mi aspetto che possa restare un punto fermo. Perché è il modo migliore per dimostrare che la partecipazione non è solo un tema di studio, ma un’esperienza concreta che merita di essere resa permanente.

Proviamo a chiarire: in che cosa si è caratterizzato il metodo di Trieste?

Anzitutto la serietà: qualcuno si è preso la pena di studiare come realizzare l’evento e renderlo produttivo, per consentire alla platea di non essere passiva ma intensamente protagonista. Tutto questo ha portato a un’atmosfera di ascolto reciproco e di sintonia che mi hanno colpito. Non era scontata, visto che c’è un background comune ma retroterra culturali e professionali diversi.

Dovrebbe essere la base.

Ma non lo è. Anzi, se c’è un qualcosa che stenta a emergere tra chi fa politica è proprio la dimensione dell’ascolto, necessaria per la formazione collettiva di una volontà comune dopo una fase di confronto.

La chiave?

L’ascolto deve essere una scelta culturale e non tattica, solo così si può rispondere a una crisi di partecipazione che, alla fine, è una crisi di attenzione. E capita anche dentro ai partiti, dove la democrazia interna spesso si esaurisce in una scelta di preferenza tra candidati che finisce per frustrare la legittima esigenza di protagonismo delle persone.

È qui che dalla crisi della politica si passa alla crisi dei partiti?

È una conseguenza: se si esalta la dimensione emotiva dell’identificazione in questo o quel leader si finisce per deludere le persone, perché la politica è complicata e i leader sono delle persone. È un errore che costa caro, perché dopo aver acceso energie, contributi e passioni ci si condanna a deluderle. C’è un gravissimo deficit interno di democrazia dei partiti a cui occorre mettere mano, a partire dall’articolo 49 della Costituzione. Su questo il messaggio di Trieste è stato chiaro.

I cattolici come possono interrompere questa spirale?

Riscoprendo alcuni elementi tipici della storia del movimento cattolico, dove si arrivava alla politica dopo lungo esercizio di discernimento e ci si affacciava alla gestione del potere con questo stile di lavoro.

Nella sua relazione a Trieste ha toccato più volte il tema della libertà: perché i cattolici possono avere una sensibilità particolare al riguardo?

Lo spiega bene Jürgen Moltmann quando parla di rapporto tra democrazia e cristianesimo: quest’ultimo ha una dimensione anti idolatrica che lo porta a rifuggire i leaderismi, la venerazione di chi detiene il potere. È un contributo prezioso e attuale, se pensiamo all’attuale tendenza a pensare di risolvere i problemi politici riducendo tutto allá scelta del “capo”, comprimendo protagonismo e libertà dei singoli.

I lavori di Trieste si sono sviluppati sul confine tra metodo e contenuti. Di cosa c’è più bisogno?

Di entrambi. Su quello del metodo, dopo la fine della Dc siamo arrivati a un pluralismo in cui le opzioni si sono legittimamente distribuite a destra come a sinistra, ma non c’è stata l’invenzione di luoghi in cui le persone interessate alla politica potessero confrontarsi e misurarsi con valori comuni.

Di qui anche il deficit di contenuti.

Sì, perché non ci sono stati luoghi in cui si sono portati avanti sforzi di elaborazione di piattaforme ideali poi traducibili in scelte politiche forti e incisive.

Da dove partire?

Riconquistiamo la dimensione “architettonica” della politica, che è quella di chi agisce sulla base di un progetto, studia dove porre le fondamenta e quali spazi costruire e proteggere perché la vita umana possa fiorire. È uno sforzo che anche tra i cattolici si è perso per strada.

E si è abbassata l’asticella.

Non facciamo che celebrare le “Idee ricostruttive” o il “Codice d Camaldoli” ma nessuno si prende la briga di scriverne uno per l’oggi. Pensiamo alle grandi questioni internazionali: abbiamo noi oggi una visione architettonica della società internazionale che vogliamo costruire e degli strumenti con cui coniugare “giustizia” e “pace”? In che modo vogliamo reagire alle violazioni del diritto e alle ingiustizie internazionali e come vogliamo rispondere al desiderio di libertà e di protagonismo dei nuovi popoli che si affacciano allá storia? Non certo, credo, rispolverando la vecchia dottrina delle “sfere di influenza” che Mattarella a Trieste ha definito come “tentazioni neo-colonialistiche e neo-imperialistiche”, ma battendoci per l’indipendenza e l’eguaglianza dei popoli e per il rispetto dei diritti delle persone.

A livello locale, come dimostra la rete di Trieste, ci sono tanti laici impegnati che vogliono riscoprire e valorizzare il loro essere cattolici. Ma si sentono anche molto soli. C’è spazio secondo lei per costruire una rete che vada oltre il prepolitico ma non sia per forza partitica?

Vedo un duplice spazio. Sul piano del pensiero, innanzitutto. Qui serve un lavoro collettivo di pensiero prima che di organizzazione. Sarebbe di grande aiuto per gli amministratori localianche perché i partiti oggi hanno scientificamente demolito al loro interno tutto ciò che si richiama al pensiero come i centri studi. E poi vedo spazi di confronto e di raccordo, che potrebbero nascere anche dal basso, a partire dall’attenzione ai diritti delle persone, cittadini e non cittadini. Gli amministratori locali, che non affrontano le questioni in modo ideologico ma sono attenti ai bisogni, perché non costruiscono dal basso una rete in cui scambiarsi buone pratiche e battaglie comuni, che possono essere conciliabili con opzioni partitiche diverse che ci sono nella natura delle cose, tanto più a livello locale?

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