Sono 42 i siti contaminati in Italia - .
Metalli pesanti, diossine, idrocarburi, solventi: in Italia esistono alcune zone delimitate, 42 per la precisione, sparse da Nord a Sud, in cui la presenza di questi contaminanti è fuori scala, al punto da essere considerate pericolose per la popolazione e per questo motivo soggette a trattamenti particolari da parte del Ministero dell’Ambiente.
Sono i Siti di interesse nazionale (Sin), estese porzioni di territorio individuate per legge in base a determinate caratteristiche di contaminazione, che comportano un elevato rischio ecologico e sanitario: il sesto rapporto dello studio Sentieri, progetto finanziato dal ministero della Salute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, stima che in loro prossimità ogni anno tra il 2013 e il 2017 ci sono stati 1.668 decessi in più rispetto a quelli attesi.
La mortalità per tumori è risultata in eccesso del 4% tra gli uomini e del 3% tra le donne, e anche i ricoveri in ospedale in età pediatrica e giovanile hanno fatto registrare numeri preoccupanti, con un’incidenza più alta dell’8% nel primo anno di vita. Dei veri e propri hotspot massivamente inquinati, individuati a partire dal 1998 attraverso norme di varia natura, tra cui leggi in materia ambientale, leggi di bilancio, decreti ministeriali, la cui supervisione è ora affidata al ministero dell’Ambiente. Inizialmente i Sin erano 57, ma sulla base di alcune modifiche ai criteri di individuazione introdotte nel 2012 il numero è sceso a 39. Successivamente, nel 2014 una sentenza del Tar del Lazio ha determinato il reinserimento del territorio del bacino del Fiume Sacco, una legge del 2017 ha individuato il Sin “Officina Grande Riparazione Etr di Bologna” in un’area sulla quale insistevano aziende che effettuavano lavorazioni con materiali contenenti amianto, e - per ultimo - nel 2020 un provvedimento ha inserito come ulteriore Sito di interesse nazionale l’Area vasta di Giugliano, in provincia di Napoli, per la quale è ancora in corso la definizione della perimetrazione.
Tra i casi di maggiore risalto mediatico c’è senza dubbio quello di Taranto, che si estende intorno all’ex Ilva, dove dipendenti e cittadini sono stati per anni esposti a elementi cancerogeni tra cui ferro, ossidi di ferro, arsenico, piombo, vanadio, nichel e cromo. Le attività di bonifica e di ripristino ambientale disposte dal ministero riguardano le aree industriali, gli specchi marini del Mar Piccolo e quelli salmastri della Salina grande. In un report dello scorso anno il Relatore speciale delle Nazioni Unite sugli obblighi in materia di diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, David R. Boyd, ha inserito quell’area tra i luoghi più degradati in Europa occidentale, denunciando ritardi nelle operazioni di bonifica: per alcune questioni burocratiche legate al sequestro dei fondi del Gruppo Riva, che nel 1995 assunse il controllo dell’acciaieria, gli interventi non sono ancora iniziati. Letteralmente sulle ceneri di un altro stabilimento di un importante gruppo industriale operativo in Italia, l’ex Montedison, sorge invece il Sin di Falconara Marittima, nelle Marche. A causa della produzione di concimi fosfatici nell’impianto, in parte del litorale e anche in acqua sono stati trovati rifiuti costituiti da ceneri di pirite e residui fosfatici. Oltre che al largo, gli agenti inquinanti possono finire anche nelle acque di falda, come nel caso del Sin di Napoli Bagnoli, dove sono stati trovati valori pericolosi di idrocarburi e metalli come ferro, manganese e in rari casi nichel. Nel sito le attività produttive erano iniziate nel 1853, ma la svolta è arrivata nel 1905, con l’avvio della costruzione dell’Impianto siderurgico Ilva di Bagnoli. Dal 1936 per due anni in quella stessa area è stato attivo anche l’impianto Eternit.
Ad oggi i 42 Sin certificati hanno un’estensione totale di circa 170mila ettari a terra – lo 0,57% della superficie del Paese – e 78mila in mare. «Sono una grande ferita del nostro territorio» dice ad Avvenire Maurizio Dionisio, direttore generale dell’Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente (Arta) dell’Abruzzo. Nella sua zona c’è soltanto un Sin, quello di Bussi sul Tirino, all’interno del quale sono state di recente rilevate concentrazioni di arsenico, piombo e mercurio superiori a quelle previste dalla legge. I primi provvedimenti sono subito stati presi: «Queste aree – aggiunge Dionisio – sono coperte con dei teloni per evitare che la pioggia non crei percolazione. Abbiamo anche sorvolato la zona con droni e termocamere per vedere se ci fosse qualche falla e prevenire la contaminazione». Nonostante i Sin continuino ad esporre la popolazione che vive in loro prossimità al rischio di entrare a contatto diretto con inquinanti altamente nocivi, secondo il direttore generale di Arta Abruzzo «quello che questi siti dovevano inquinare, lo hanno già fatto nel corso degli anni». Quando sui rifiuti c’era tutta un’altra sensibilità, e questi venivano interrati senza grossi problemi, salvo poi accorgersi che le sostanze non smaltite restano nel terreno e minacciano le falde acquifere, potenziale vettore per la diffusione degli agenti inquinanti fin nelle case delle zone limitrofe. Al punto che a Bussi molte persone hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni.
Per fermare la diffusione delle sostanze tossiche la legge dispone che i Sin vengano sottoposti a bonifica, anche se queste avvengono spesso con grave ritardo: si tratta di processi lunghi e costosi, che necessitano di muovere grandi porzioni di terreno e hanno bisogno quindi di vaste aree di stoccaggio difficili da individuare. Se per motivi tecnici o di insostenibilità economica le attività di bonifica non dovessero permettere di raggiungere concentrazioni di agenti inquinanti inferiori ai limiti di legge, è possibile chiedere una deroga, a patto di dimostrare che le concentrazioni residue non comportino rischi per la salute e per l'ambiente e di adottare precauzioni permanenti. Gli interventi non sono a carico delle amministrazioni locali, ma sono gli enti ritenuti responsabili dell’inquinamento al termine di processi civili e penali a farsi carico delle bonifiche, secondo la logica del “chi inquina paga”. Il quanto, però, non è ancora calcolabile: diversi processi sono ancora in corso e le condanne arrivate non sono definitive. Quel che è certo è che a “pagare”, non in termini economici, è stata per ora la popolazione delle aree intorno ai Sin, colpita da un’incidenza anomala di alcune malattie gravi e costretta all’allontanamento – forzato o volontario – per sfuggire al disastro ambientale.