La sede della Comunità Shalom a Palazzolo sull'Oglio, nel Bresciano - Web
Cos’è (e anche: cos’è diventata) una comunità di recupero per tossicodipendenti? Chi ci entra e chi ci lavora? Con quali metodi si cura e si “guarisce” un ragazzo dalla droga, dalle pasticche, dai disturbi comportamentali, che sono ormai tutt’uno con quelli della personalità, con gli attacchi di panico, spesso con la violenza e l’aggressività? Sono le questioni prepotentemente riportate sotto i riflettori della cronaca in queste ore dall’inchiesta “choc” – così come è stata subito definita – condotta da Fanpage e trasmessa in televisione dal programma di La7 PiazzaPulita sulla Comunità Shalom di Palazzolo sull’Oglio e sulla sua fondatrice, suor Rosalina Ravasio.
Cos'è Shalom e come funziona
I fatti e i fatti documentati, prima. Nei fatti la Comunità Shalom è una struttura privata, nel Bresciano, che si occupa dal 1986 della riabilitazione e del reinserimento sociale dei tossicodipendenti. Tanto nota non solo da aver accolto via via sempre più ragazzi (oggi sono circa 250 gli ospiti, un numero altissimo per una comunità terapeutica), ma anche da essere diventata meta di visite e simpatie di moltissimi personaggi famosi, tra cui tanto per fare un esempio il ct della nazionale Roberto Mancini, che lì ha trascorso l’ultima Pasqua. A pensarla, fondarla e dirigerla una figura carismatica e controversa, quella di Suor Rosalina appunto, orsolina di vocazione ma dedita ormai da anni alla sola attività della comunità. Come controverso è il fatto che nelle struttura entrino ospiti con età diverse (anche 12enni e 13enni) e con le problematiche più disparate, non solo legate alle dipendenze. La comunità è gratuita per chi la frequenta: a permetterne le attività sono le donazioni, i contributi volontari delle famiglie e il lavoro svolto dagli stessi ragazzi al suo interno.
Le accuse e le inchieste giudiziarie
Nei fatti documentati, in particolare da una giornalista di Fanpage che si è infiltrata nella comunità sotto le mentite spoglie di una volontaria e poi da alcuni video forniti alla stessa redazione dagli ospiti che sono usciti, Shalom assomiglia però a un lager: in questi video, trasmessi da PiazzaPulita, i ragazzi vengono insultati e maltrattati (specie i più fragili e quelli di origine straniera), suor Rosalina utilizza un linguaggio scurrile e aggressivo (con le ragazze in particolare), si indugia sui metodi punitivi (gli isolamenti, la privazione del sonno, la spinta di una carriola piena di sassi in cortile come “castigo”), su quello “ossessivo” della preghiera, che in comunità è obbligatoria. E ancora: testimonianze e racconti di alcuni ex - che si sono mostrati anche in volto, con nome e cognome - riportano un clima costante di vessazione, quando non di abuso, descrivendo percorsi terapeutici discutibili, a cominciare dall’uso indiscriminato di farmaci e psicofarmaci. Tutto materiale che sarebbe, per altro, all’origine della nuova inchiesta aperta proprio in questi giorni dalla Procura di Brescia contro ignoti per presunti maltrattamenti e che fa seguito a un'altra iniziata nel 2013: quelle prime indagini, nate da accuse analoghe (e da altrettanti video di pestaggi e intimidazioni), sono sfociate in un processo che ha portato a sopralluoghi nella stessa comunità e infine all’assoluzione dei ben 42 imputati coinvolti.
Shalom, naturalmente, si difende da tutte le accuse. Suor Rosalina ha convocato una conferenza stampa in cui si è presentato anche il conduttore di PiazzaPulita Corrado Formigli (che ha dedicato alla comunità un’altra puntata, in cui sono stati mostrati altri video di violenze e abusi) e ha spiegato i suoi metodi, giustificando l’uso di attività fisiche come quella della carriola per rispondere all’aggressività dei ragazzi e sostenendo che i video di Fanpage sarebbero stati manipolati ed estrapolati ad arte. Pesanti la accuse alla giornalista infiltrata, che la suora ha detto di aver allontanato credendola «un travestito. La bava non l’aveva alla bocca, l’aveva sull’anima, faceva schifo» le sue parole. Accanto a lei medici, psichiatri e molte famiglie dei ragazzi ospiti della struttura, che l’hanno sostenuta. Ancora, ieri sera, dopo la trasmissione di altri video e in particolare di uno in cui alcuni “vecchi” (così vengono chiamati i ragazzi che sono in comunità da più tempo e che coordinano le attività dei nuovi) torturano un ragazzo straniero che chiedeva delle sigarette e umiliano un disabile, suor Rosalina ha telefonato a Formigli in trasmissione difendendo ancora il suo operato ma sostenendo di essere sconvolta da quanto visto, pronta a denunciare lei stessa i ragazzi coinvolti.
Le reazioni
La comunità di Palazzolo e più in generale di tutto il Bresciano (dove l'attività di suor Rosalina è conosciuta e apprezzata da sempre) è intanto scossa. L’arcivescovo Pierantonio Tremolada non ha rilasciato dichiarazioni sulla vicenda, ma il settimanale diocesano La voce del popolo ha pubblicato un lungo editoriale intitolato eloquentemente “Il male è la droga, non chi la combatte” in cui si ripercorre la storia buona di Shalom, che in quarant’anni ha salvato dal baratro migliaia di ragazzi. Vi si lancia un appello affinché quello di suor Rosalina non diventi un nuovo caso Muccioli, ovvero un atto di accusa generale contro le comunità: «La sconfitta della società – vi si legge – si chiama droga. Non è il tentativo di recuperare e ridare dignità ai ragazzi vittime delle dipendenze. E per chi sbaglia si sono i processi, c’è la magistratura». Ancora, sui metodi di suor Rosalina e sulla cosiddetta “Cristoterapia”, presentata nell’inchiesta tv alla stregua di una ciarlataneria: «Perché fa così paura la preghiera? Perché fa paura pensare che dei giovani nel loro percorso di recupero possano beneficare anche (e non solo) della preghiera?» si domanda l’editoriale. Un articolo a cui hanno fatto seguito decine di lettere e email arrivate alla redazione del settimanale (e che Avvenire ha potuto visionare), tra cui quelle di molti volontari e di famiglie che sostengono l’esatto opposto di quanto ricostruito nelle testimonianze viste in tv.
Ma la vicenda, lo si diceva all’inizio, riporta l’attenzione soprattutto sul mondo della comunità terapeutiche e sull’emergenza dimenticata delle dipendenze. Che coinvolge migliaia di famiglie spesso sole e impotenti, travolte da un dramma che non hanno gli strumenti e l'aiuto per affrontare quotidianamente, e che torna all’attenzione dell’opinione pubblica (come della politica, per lo più impegnata sul tema della legalizzazione della cannabis) solo a colpi di operazioni mediatiche a effetto o di scoop: un paio d’anni fa toccò a quella della serie di Netflix su San Patrignano, oggi all’inchiesta su Shalom.
I ragazzi della comunità Trasta del Ceis, a Genova - Fict
Cosa sono le comunità oggi (e l'assenza dello Stato)
«Quello che non può passare sono due cose – spiega Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict) e ieri sera ospite in studio da Formigli –. Primo, nel caso specifico di Palazzolo, che tutte le comunità di matrice cattolica siano luoghi infernali. Non lo sono e la rete delle nostre strutture, nata nel 1981 dall’intuizione e dall’impegno di don Mario Picchi, lo dimostrano nei fatti. Secondo, che le comunità siano ancora i luoghi che erano negli anni Ottanta, costruiti attorno a figure carismatiche e quasi eroiche per rispondere ai bisogni dei soli eroinomani».
Già, perché le comunità sono cambiate profondamente, come le dipendenze e le fragilità dei ragazzi. Quelle della Fict, come del Cnca (parliamo delle reti che gestiscono la maggior parte delle strutture presenti sul nostro territorio), sono tutte accreditate, cioè rispondono a requisiti professionali e organizzativi che consentono di svolgere attività negli standard garantiti dal Servizio sanitario nazionale, offrendo a tutti, ovunque, iter terapeutici riconosciuti, con progetti individualizzati e professionalità altamente specializzate, «una condizione che rispetto a trent’anni fa è completamente diversa – spiega ancora Squillaci –. Ma sono anche cambiati gli ospiti: oggi la stragrande maggioranza degli utenti presentano problemi psichiatrici correlati all’uso delle sostanze, per cui esistono protocolli differenziati e specializzati, anche in base alle età. Per i minori, per esempio, esistono strutture ad hoc, anche se sono ancora troppo poche rispetto alla richiesta, che soprattutto dopo la pandemia è diventata altissima».
Il tutto in una realtà, quella dei servizi sociosanitari che si rivolgono alle fragilità, la cui spina dorsale è (drammaticamente, ma fortunatamente) il mondo del terzo settore, e soprattutto le associazioni di matrice cristiana: «Nell’area delle dipendenze patologiche i servizi sono tutti gestiti dal privato, se venissero a mancare da un momento all’altro assisteremmo a un’implosione dello Stato sociale» conclude Squillaci. Ciò che andrebbe cambiato da parte delle istituzioni, le grandi assenti ormai da troppo tempo, coi servizi pubblici azzerati, i fondi irrisori, la prevenzione scomparsa. «Tra gli eroi di trent’anni fa (le cui esperienze andrebbero comunque guardate) e i mostri, ma più spesso gli invisibili di oggi, ci sarà pure una via di mezzo...».