Uno striscione per i 20 anni della Saint Martin - Fondazione Fontana
Il primo fu Thomas. Allora il ragazzo non aveva ancora un nome, era rinchiuso nudo e abbandonato in uno stanzino, la vergogna della sua famiglia. Vent’anni fa don Gabriele Pipinato, impegnato nelle benedizioni delle case della parrocchia, incrociò il suo sguardo e ne fu fulminato. In quella zona rurale del Kenya, nella diocesi di Nyahururu (200 chilometri a nord di Nairobi), la disabilità è emarginazione, isolamento e disprezzo. Il sacerdote battezzò il giovane disabile fisico e mentale, gli diede un nome, convinse la madre ad accudirlo e capì che la cura pastorale di quell’angolo di Paese che gli era stato affidato aveva senso solo partendo dagli ultimi, i reietti.
Una donna e il suo bambino accolti dalla Saint Martin - Fondazione Fontana
L’avventura dell’Apostolato sociale cattolico Saint Martin comincia così, grazie a Thomas e ai volontari che giorno dopo giorno affiancano don Gabriele, fidei donum arrivato negli anni Novanta da Padova, oggi 55enne, e da subito impegnato a scovare, curare e reinserire decine e decine di disabili reclusi nelle case (in due decenni sono stati più di 1.300). E pian piano cambiare la mentalità della gente. Poi arrivò l’accoglienza ai malati di Aids, ai tossicodipendenti e alcolisti, l’accoglienza ai bambini di strada anche attraverso il microcredito ai genitori. Per tutti c’è una speranza.
Oggi la Saint Martin opera in un’area del Kenya grande come metà del Veneto, con una casa per bambini malati di Aids, tre case per bambini di strada e una Comunità dell’Arca per bambini disabili. Un apostolato straordinario che occupa 65 dipendenti stipendiati e si avvale di 1.200 volontari formati. Dopo don Gabriele, che ha finanziato la sua missione anche attraverso la Fondazione Fontana, creata nel 1998 a Padova, è arrivato don Mariano Dal Ponte. E la bella notizia è che dal primo gennaio l’intera opera Saint Martin è passata ai kenyani.
«Aiutiamoli a casa loro» non è uno slogan: grazie alla formazione, il personale locale è ora in grado di gestire da solo le necessità delle decine e decine di bambine e bambine, uomini, donne e anziani non autosufficienti e delle loro famiglie che senza il Saint Martin sarebbero abbandonati a sé stessi.
Ad assumere la direzione è una volontaria della prima ora, l’avvocata Irene Whamiti, 55 anni, un figlio, giudice della Corte suprema. Dopo 20 anni e un importante investimento di tempo, amore e competenze, il Saint Martin cammina con le proprie gambe: il seme piantato da un prete padovano in terra d’Africa è diventato una quercia che continuerà a crescere da sola. «Nel 1995 padre Gabriele è venuto a trovarmi nel mio ufficio – racconta Whamiti –; pensava che io potessi servire come volontaria al Saint Martin. All’inizio immaginavo di donare quello che sapevo fare meglio, cioè servizi legali gratuiti, ma quando ho cominciato a lavorare con le persone vulnerabili ho capito che erano loro che avevano qualcosa da dare a me. Il Saint Martin mi ha reso consapevole dei bisogni degli altri e ha rafforzato in me il valore di far parte di una comunità».
Irene Whamiti, nuova direttrice della Saint Martin - Fondazione Fontana
L’avvocata Whamiti dovrà seguire i tre rami principali in cui si articola l’attività del Saint Martin: uno rivolto ai bambini e alle bambine svantaggiate, uno dedicato ai diritti umani e il terzo su dipendenze e salute mentale, un programma che finora ha seguito e riabilitato 400 persone. Il tutto senza ricevere compenso, perché Irene vive del suo lavoro di avvocata. «La persona giusta a cui lasciare le redini del Saint Martin», commenta don Gabriele, che oggi è vicario episcopale della diocesi di Padova oltre che presidente della Fondazione Fontana. Questo progetto, nato dall’idea di un prete padovano, germogliato in Kenya – conclude don Gabriele –, è ora cresciuto al punto da poter guardare da solo al futuro «con fede e fiducia», grazie a un capillare lavoro di formazione degli operatori locali. E con un motto: «Only Through community», solo attraverso la comunità.