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L’Italia non è più un “luogo sicuro” per lo sbarco di profughi da navi civili e militari straniere. Lo ha dichiarato il governo con un documento firmato dai ministri Di Maio (Esteri), Lamorgese (Interni), De Micheli (Infrastrutture) e Speranza (Sanità).
La decisione è stata presa mentre un barcone con 80 persone risulta disperso e la nave umanitaria Alan Kurdi, che batte bandiera tedesca, si sta avvicinando alle coste italiane con 150 persone a bordo, trasbordate durante due salvataggi di cui uno concluso dopo che una delle milizie libiche a bordo di un motoscafo ha esploso diversi colpi in mare.
Yesterday our crew aboard the #ALANKURDI rescued 150 people.
— sea-eye (@seaeyeorg) April 7, 2020
Even when life in Europe has almost come to a halt, #humanrights must be protected.
Now our guests need a port of safety.#LeaveNoOneBehind pic.twitter.com/zctyL8SNmn
Il provvedimento, formalmente proposto dal Ministero delle Infrastrutture, arriva settimane dopo la dichiarazione della pandemia, come del resto ammettono gli stessi firmatari. Il burocratese non riesce a nascondere una cronologia che fa arrivare la “chiusura” dei porti settanta giorni dopo la dichiarazione dell’Oms. “Il 30 gennaio 2020 l'Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che la epidemia di Covid-19 costituisce una emergenza sanitaria di interesse globale, e che in data 11 marzo 2020 la stessa agenzia sanitaria dell'Onu ha dichiarato che la diffusione del virus” avrebbe potuto toccare ogni continente. Perciò per l'intero periodo di durata “dell'emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus Covid-19, i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di “Place of safety” (luogo sicuro, ndr)”, per i casi di soccorso “effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell'area italiana”.
Curiosamente, però, emissari del governo hanno cercato di ottenere l’ok della Croce rossa perché sia l’organizzazione a gestire la quarantena dei migranti salvati dalla Alan Kurdi. Disponibilità che la Croce rossa ha confermato. Lunedì un barcone con una dozzina di persone era arrivato autonomamente a Lampedusa. Dunque, stante l’attuale posizione dell’esecutivo, chi viene messo in mare sulle coste libiche deve tentare la roulette russa della traversata fino alle acque territoriali italiane per poter ottenere assistenza.
“In considerazione della situazione di emergenza connessa alla diffusione del Coronavirus e - si legge ancora nel decreto interministeriale - dell'attuale situazione di criticità dei servizi sanitari regionali e all'impegno straordinario svolto dai medici e di tutto il personale sanitario per l'assistenza ai pazienti Covid-19 non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di tali luoghi sicuri”, senza compromettere “la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19”.
"Nel 2018 l'ex ministro degli Interni di estrema destra Matteo Salvini - osserva il The Guardian, che aveva anticipato la notizia con un pezzo firmato da Lorenzo Tondo - ha dichiarato i porti italiani "chiusi" alle navi di salvataggio dei migranti, sostenendo che i migranti rappresentavano una minaccia alla sicurezza nazionale. Due anni dopo, il governo italiano ha dichiarato che il Paese rappresenta una minaccia per la salute dei migranti a causa del coronavirus".
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Infine un passaggio, contenuti nel documento interministeriale, che ha l’involontario tono della beffa. Come non provenissero dai campi di tortura libici, senza alcun genere di protezione e dopo sessioni di torture, stupri e abusi, in centri peraltro finanziati direttamente e indirettamente dall’Italia e dall’Europa, gli estensori del decreto scrivono che l’impossibilità ad accogliere è motivata da un’altra considerazione: “Che alle persone eventualmente soccorse, tra le quali non può escludersi la presenza di casi di contagio Covid-19, deve essere assicurata l'assenza di minaccia per la propria vita, il soddisfacimento delle necessità primarie e l'accesso ai servizi fondamentali sotto il profilo sanitario, logistico e trasportistico”. Esattamente tutto ciò che manca in Libia.