sabato 9 settembre 2023
Dovevano essere inviati in Ucraina, ma sono parcheggiati in un deposito. Dallo stop alla vendita da parte della Svizzera ai silenzi italiani, il caso ha una portata europea
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Sono ancora parcheggiati in un deposito all’aperto a Villesse, a pochi chilometri da Gorizia, i novantacinque carri armati Leopard di produzione italiana che il colosso svizzero del settore bellico Ruag voleva vendere alla società tedesca Rheinmetall.

Dovevano essere ricondizionati (soggetti cioè a un processo di manutenzione) e inviati in Ucraina ma la vendita è stata bloccata dal Consiglio federale elvetico, che l’ha ritenuta un’operazione in contrasto con la legge sull’export bellico e con la politica di neutralità del Paese. In Svizzera è scoppiato uno scandalo che ha portato alle dimissioni un dirigente dell’azienda e ha spinto la ministra della Difesa elvetica Viola Amherd ad aprire un’inchiesta federale.

Domanda di trasparenza

Ma la vicenda sta sollevando interrogativi anche in Italia, circa la conformità delle operazioni compiute dall’Agenzia Industrie Difesa, l’ente di diritto pubblico che agisce per conto del governo. L’Osservatorio permanente sulle armi leggere Opal di Brescia e l’associazione Weapon Watch di Genova ritengono che procedure adottate nella vendita di materiali militari dismessi siano state poco trasparenti e chiedono una verifica da parte del Parlamento.

«Per il trasferimento all’estero di quei carri armati non è stata richiesta alcuna autorizzazione all’organo nazionale competente, ovvero l’Uama, come prevede la legge 185 che regolamenta le esportazioni di armi - spiega Carlo Tombola di Weapon Watch -. Di fatto hanno voluto giocare su un equivoco, facendo credere che non si trattasse di materiale militare di cui l’esercito italiano voleva disfarsi, ma soltanto di rottami di ferro. Però nel contratto di cessione a Ruag ci sono ben 131 pagine di allegati che indicano la presenza di decine di migliaia di pezzi di ricambio. Inoltre, nel contratto doveva essere specificato che l’azienda acquirente intendeva ricondizionare i carri armati per rivenderli».

La vicenda, risalente ad alcuni anni fa, è tornata di attualità in seguito a un’inchiesta dell’emittente radiotelevisiva nazionale svizzera Rsi, che ha analizzato i contratti di vendita e ha fotografato con i droni le file di Leopard parcheggiati nel deposito goriziano.

Lo stop di Berna

I veicoli, prodotti dalla fabbrica Oto-Melara di La Spezia (gruppo Leonardo) furono venduti nel 2016 dall’esercito italiano alla Ruag, azienda controllata dallo stato elvetico che si occupa di produzione e riparazione di armi, munizioni, veicoli e sistemi informatici militari. Negli anni scorsi l’azienda svizzera avrebbe voluto rivenderli all’esercito del Brasile, ma poi l’affare è sfumato e da allora i Leopard sono rimasti inutilizzati nel nord Italia. Finché la guerra in Ucraina non ha fatto crescere la richiesta di questi veicoli da combattimento e nel marzo scorso la stessa Ruag ha siglato un ulteriore accordo di vendita, stavolta con la società tedesca di armamenti Rheinmetall che dopo averli ricondizionati intendeva recapitarli a Kiev con l’autorizzazione del governo tedesco.

Ma il governo di Berna ha bloccato tutto, ritenendo che l’operazione violasse la neutralità del Paese, e ha innescato una serie di polemiche che hanno spinto l’amministratrice delegata di Ruag alle dimissioni. Sia la magistratura elvetica che quella tedesca stanno attualmente indagando sul caso, ipotizzando i reati di corruzione e compravendita di pezzi di ricambio di veicoli militari senza autorizzazione. «La guerra in Ucraina ha scatenato da tempo anche la corsa al profitto facile nel campo delle apparecchiature belliche – denuncia Tombola -, con mezzi corazzati venduti per 45mila euro che oggi, se operativi e funzionanti, potrebbero valere circa un milione di euro l’uno». Anche per questo, le due Ong italiane chiedono al Parlamento di verificare il modus operandi adottato da Agenzie Industrie Difesa nella vendita dei materiali militari dismessi.

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