Il Gran Sasso - Thomas Kroeckertskothen,TeKappa
Talvolta il Gran Sasso, quando i raggi del sole all'alba incrociano una certa dose di umidità e di temperatura dell’aria, si tinge di rosa. Dicono che pare incendiato. Capita a molte montagne, a seconda della composizione delle rocce e delle condizioni atmosferiche.
Presto potrebbe accadere di nuovo, ma per un altro motivo: il passaggio del Giro d’Italia. L’11 maggio è in programma la tappa a Prati di Tivo, località turistica montana nel comune abruzzese di Pietracamela, in provincia di Teramo. A “incendiare” la cima più alta degli Appennini non dovrebbe però essere la meraviglia della natura, ma l’illuminazione artificiale pensata per promuovere le bellezze artistiche o naturali di tutte le località toccate dalla gara ciclistica della maglia rosa, a 100 giorni dal via.
Il condizionale è più che d’obbligo perché l’ente Parco si è opposto, e ha negato il permesso di accendere i proiettori puntandoli sul Corno Grande. La decisione incontra il favore delle associazioni ambientaliste, ma scontenta i comuni, allettati dalla possibilità di una promozione turistica importante.
In casi come questi è difficile schierarsi. Da un lato è ragionevole che un territorio cerchi di valorizzare le proprie risorse, farle conoscere, e da qui immaginare ulteriori possibilità di sviluppo. Dall’altro si pone il tema del disturbo che un’illuminazione artificiale notturna può dare agli animali selvatici di un parco naturale. Qualcuno ha anche fatto notare che lo scorso anno in una tappa del Tour de France, quella al leggendario Puy-de-Dome, le bici hanno sfilato senza pubblico, proprio per tutelare l’area protetta.
A ben vedere, è difficile pensare che l’illuminazione temporanea della cima di una montagna possa provocare danni equivalenti o superiori rispetto ad altre attività, e tutto sommato la convivenza tra esseri umani e fauna montana ha previsto e continua a contemplare interazioni più o meno problematiche.
Forse, allora, varrebbe la pena portare la questione fuori dal perimetro della contesa locale e chiedersi se il problema non risieda invece nello sguardo sull’ambiente che nutre il desiderio umano di bellezza. Parafrasando un concetto espresso, pur se per altre ragioni, da Marco Albino Ferrari nel suo recente saggio “Assalto alle Alpi”, si potrebbe dire: ma il Gran Sasso – come qualunque altra montagna - è bello in sé, oppure affinché la nostra attenzione sia catturata abbiamo bisogno di vederlo illuminato?
Il Corno Grande ha la peculiarità di essere una delle culle dell’alpinismo: la vetta occidentale, a 2.912 metri di altezza, venne scalata nell’agosto 1573 da una spedizione “rinascimentale” guidata da Francesco De Marchi, che lasciò parole di meraviglia: "Quand'io fuoi sopra la sommità mirand'all'intorno pareva che io fussi in aria, perché tutti gli altissimi Monti che gli sono appresso erano molto più bassi di questo".
La promozione turistica lavora sull’immaginario delle persone, non impone modelli, anche se può avere una funzione educativa. Ma di cos’altro ha bisogno una montagna se non del suo spettacolo naturale? Da diverso tempo la riflessione sullo sviluppo delle terre alte ha incominciato a porsi il problema di una relazione con l’ambiente che ne rispetti l’equilibrio e l’essenza, interrogandosi ad esempio sulla ragione dello sci senza neve naturale, dei piatti di mare consumati in quota, delle salite programmate a prescindere dai rischi climatici, della montagna pensata più come parco giochi che parco naturale.
Non si tratta di limitare le possibilità di sviluppo di un territorio, né di impedirgli di essere attrattivo in modo nuovo, ma di suggerire alle persone un approccio che è capace di scorgere la bellezza semplicemente dov’è, da sempre.