Se un mattino sotto casa sparano a tuo marito cinque colpi di pistola, uno alla testa. Se l’uomo che hai sposato e accanto al quale hai sognato di vivere tutta la vita va in coma, non si risveglia più e muore dopo diciannove mesi, un giorno dopo l’altro a sperare e piangere e pregare. Se rimani sola con quattro figlie, una delle quali piccolissima. Se... Pretendere di leggere nel cuore della moglie, madre e vedova è pretesa assurda. Logico sarebbe che maledica il mondo, la sorte, la vita, e naturalmente l’assassino. Che chieda giustizia, sì, traducendo però un’altra parola annidata nel cuore, tenace e velenosa, intossicandolo: vendetta. Sarebbe umano, sbagliato ma umano. Chi potrebbe condannarla? Chi, non avendo passato quel che ha passato lei? Logico e umano inacidirsi e permettere al dolore di svuotare il cuore d’ogni sentimento, lasciando il deserto. Perdere il marito e perdere tutto, anche se stessa. Angelica Carporandi, nella sua incommensurabile tragedia, invece ha vinto. Mercoledì scorso il tribunale di Torino ha condannato all’ergastolo Francesco Furchì per l’omicidio di Alberto Musy, l’avvocato che il 21 marzo 2012 alle 8,01 del mattino subì l’agguato di un uomo con il volto celato da un casco da motociclista e armato di pistola. Uomo che è stato riconosciuto in Furchì. Ci sarà il processo d’appello. Ma intanto «è stato stabilito che cosa è accaduto – mormora Angelica – e possiamo tornare a vivere». Ha vinto. Non prova odio né rancore. Non è una finta, non è una posa. Glielo leggi sul viso, lo percepisci nelle sue parole. Non potrebbe mentire, Angelica. La verità non l’ha incontrata, c’è andata a sbattere contro. Una verità dolorosa con cui da quasi tre anni deve fare i conti ogni mattina quando si sveglia e ogni sera quando cerca di prendere sonno. La verità di un marito che esce di casa una mattina, gli sparano e non si risveglia più, spegnendosi diciannove mesi dopo. Come andare al binario a salutare per sempre la persona che ami ed è a bordo di un treno che impiega un anno e mezzo a lasciare la stazione, e tu intanto saluti e piangi, piangi e saluti. Una verità in cui è impossibile per noi immedesimarci. Una verità davanti alla quale possiamo solo stare in silenzio e solo, se lei lo chiedesse, stringere la mano ad Angelica. La vittoria della piccola formidabile donna torinese è racchiusa in una sola parola, tre sillabe che andrebbero pronunciate sempre sottovoce, con pudore: perdono. Furchì si proclama innocente e quindi non può aver mai chiesto di essere perdonato per un crimine che dice di non aver commesso, nonostante il giudizio contrario del tribunale. Quindi è un perdono doppio perché gratuito, mai sollecitato. «Perché è difficile – ammette Angelica – perdonare chi non chiede scusa». Impossibile penetrare il cuore. Impossibile e comunque ingiusto violare il suo segreto. Ma è anche umano, per noi, chiederci come e perché. Da dove nasca quel perdono che in un mondo dominato da rancore e vendetta suona come uno scandalo. Forse, allora, Angelica sarà stata aiutata dal suo cuore naturalmente mite, che ha saputo rimanere tale nonostante l’aggressione del male. Sicuramente, però, avrà compreso che il perdono – uno scandalo, ma d’una luce abbagliante – è l’unica scelta per poter guarire. Guarire lei. E far guarire il mondo attorno a lei e al marito e alle quattro figliole. Non ci si può macerare nella rabbia all’infinito. L’odio corrode e corrompe e rovina e distrugge tutto. Il perdono invece risana, se hai la forza di usarne la forza. Ma, appunto, ogni parola è di troppo. Di fronte ad Angelica è bene tacere. Abbassare il capo. E dire grazie.