Sabrina Magnolfi, 44 anni, è stata uccisa da suo padre nel sonno sabato scorso
Non s’era arresa mai, Sabrina. Nemmeno quando qualche anno fa la tetraparesi che la tormentava dalla nascita aveva finito col toglierle persino la possibilità di camminare da sola. La carrozzina era diventata indispensabile per ogni spostamento, ma Sabrina era più forte. Della carrozzina e della tetraparesi. Anzi, a dirla tutta, la battaglia era persa in partenza: vinceva lei, sempre. Col suo sorriso travolgente, la sua voglia di fare, di partire, di organizzare, di lavorare, di dipingere. Di vivere.
Sui giornali, anche il nostro, Sabrina è «la disabile uccisa dal padre a Firenze» sabato scorso. Il padre ha sparato a lei, alla moglie, e poi s'è tolto la vita. Troppo difficile, secondo lui, prendersene cura, troppo angoscioso pensare che prima o poi sarebbe rimasta da sola, «non ce la facciamo più» ha tagliato corto l’uomo, su un biglietto scritto prima di compiere la strage. Ieri a prendere carta e penna hanno pensato gli amici di Sabrina. Che ad Avvenire hanno deciso di raccontare la storia di una donna speciale. Una donna capace di cambiare, col suo coraggio, la vita delle persone che la circondavano e di un intero quartiere. Oggi in lutto.
Lavorava, Sabrina. I genitori non volevano, le avevano detto che no, non era proprio il caso. Ma lei non sopportava d'essere la sua disabilità: «La mia malattia è una cosa, io sono un'altra» ripeteva alla sua migliore amica, Silvia. Così s'era iscritta a un concorso pubblico e l'aveva vinto: impiegata al Quartiere 5 (una delle circoscrizioni del Comune di Firenze). La mattina venivano a prenderla presto, quelli dei servizi sociali: sorriso per tutti, il vestito curato, un filo di trucco. Sabrina, 44 anni, faceva la rassegna stampa per il presidente, poi trascriveva atti e documenti sul pc (che usava alla velocità della luce), ancora passava le scartoffie, gestiva la segreteria, aiutava i colleghi. Con lo stipendio si manteneva, e copriva le spese dei genitori anziani: Guerrando, 84 anni, e Gina, 82. Il resto - l'aiuto economico appena poteva, ma soprattutto l'impegno e la passione - era per gli amici: al Laboratorio di pittura della Comunità di Sant'Egidio, all'Unitalsi, alla cooperativa Barberi, in parrocchia e alla casa del popolo.
Del Laboratorio, in particolare, Sabrina era l’anima e la forza motrice. Sempre propositiva, sempre presente. Quello era lo spazio dell’incontro con gli altri – i disabili, i volontari, i semplici appassionati di pittura –, del dibattito, della creatività, della fede anche. «Sabrina era inarrestabile – racconta Silvia –. Per ogni viaggio che facevamo, a Roma, ad Assisi, a Napoli, aveva un nuovo progetto, una nuova meta. Voleva andare a Parigi, voleva andare in Terra Santa, almeno una volta, nella vita». Solo l'aereo la terrorizzava, ma c'è da scommettere che avrebbe superato anche quella paura. E poi c’era il suo impegno per gli altri, tradotto nei gesti quotidiani e nella pittura soprattutto. «Si parlava della condizione dei bimbi nei paesi teatro di conflitti ed eccola a dipingerli, i piccoli, al lavoro per invocare il diritto all’educazione e all’istruzione. Una volta ha incontrato una signora rom, Ceija Stojka, che le ha raccontato di essere stata deportata e tenuta prigioniera nei campi di concentramento di Auschwitz e di Ravensbruck. Ed eccola pronta a rappresentare la vita della sua amica prigioniera nelle baracche del campo, costruendo con pezzi di cartone delle sagome e montandole su una tavola di compensato». Era difficilissimo, perché ci si metteva la tetraparesi a intorpidirle le mani, ma lei vinceva di nuovo.
Quando ci si ritrovava tutti insieme, la domenica, magari dopo la Messa, qualcuno pregava ad alta voce per un mondo migliore. «Il mondo migliore lo facciamo di già – diceva Sabrina –, quando aiutiamo gli altri perché stiano bene». La frase fa parte di un piccolo diario, che nel corso degli anni (21 trascorsi insieme al Laboratorio) i suoi amici hanno raccolto e che ora stanno mettendo in ordine: «Lo facciamo leggere a voi intanto, poi chissà». Stava così bene coi suoi amici, Sabrina, che nel cassetto aveva il sogno di comprare una casa per tutti. Era andata con Silvia a vederne alcune, nel quartiere Brozzi: «Ho i soldi, ho chi mi ama, adesso voglio il futuro».
Tra Sabrina e il suo futuro c’è l’abisso d’una tragedia decisa da qualcun altro. Qualcuno che Sabrina, col suo futuro, non l'aveva mai vista. Ieri Silvia è stata chiamata dai carabinieri in caserma. Sul biglietto lasciato sul tavolo della cucina papà Guerrando ha scritto anche che i soldi della famiglia, tutti i loro averi, devono andare al Laboratorio di pittura. «Siete voi?», hanno chiesto gli agenti. «Sì», ha risposto Silvia con gli occhi pieni di lacrime. «Non so cosa succederà, dei soldi e del resto. So che il sogno di Sabrina, la casa di Sabrina, diventerà una realtà però. Noi, che tanto l’abbiamo amata e tanto abbiamo ricevuto da lei, vivremo per costruirla».