Imperfetti? Scartati. Eccolo qui, in 7 casi su 10, il destino dei figli che ancora sulla carta – spesso prima, persino, di adeguate conferme strumentali – risultano a rischio di qualche anomalia. La denuncia del primario dell’Unità di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale di Treviso, Enrico Busato, è stata rilanciata sulle pagine di Avvenire domenica scorsa: «Vediamo i futuri genitori catturati dalla paura, temono di rimanere soli, considerano subito il figlio che portano in grembo un “peso” più grande delle loro forze». Un trend spietato, e sempre più diffuso, per cui (non allontanandosi molto dall’Islanda) anche l’Italia sta vedendo gradualmente assottigliarsi il numero in particolare dei nati con sindrome di Down, quasi fino a scomparire. “Merito” delle diagnosi prenatali sempre più efficienti, a cui tuttavia non si accompagna il sostengo alle coppie e l’informazione sulle possibilità non solo che un figlio malato ha di vivere dignitosamente, ma persino di nascere perfettamente sano nonostante le previsioni mediche dicano il contrario. È quello che è capitato alle due coppie che abbiamo incontrato: entrambe avevano deciso, coraggiosamente, di accogliere un figlio nonostante una diagnosi infausta e hanno invece sperimentato il miracolo di vederlo nascere sano.
Marina e Giancarlo: «Sofia doveva essere un mostro. Per noi era già imprescindibile»
«Da piccoli a scuola ci insegnavano la storia degli spartani e mi ha sempre colpito che quando nasceva qualcuno con malformazioni lo gettavano giù dal monte. Che crudeltà, pensavamo noi! Ma oggi facciamo lo stesso, chi non produce e non serve viene scartato...». La tivù in cucina rimanda da San Giovanni Rotondo le parole del Papa, e il nostro sguardo non può che cadere sull’uomo davanti a noi che stringe avvolta in una coperta la piccola Marta, 4 anni, nata con un abbozzo di cervello (mezzo centimetro in tutto, certifica la risonanza magnetica). Eppure non siamo lì per lei, che è una figlia in affido, ma per sua sorella Sofia, 21 anni, perfettamente sana, figlia naturale di Marina Birollo e Giancarlo Violetto: «È lei che secondo i medici dovevamo assolutamente abortire – racconta Marina –. Non avevano alcun dubbio: io probabilmente sarei morta durante il parto, ma lei di sicuro sarebbe nata con gravissime malformazioni. Sono momenti di paura, sei solo, incompreso da tutti, ti senti dire che sei un genitore degenere se non accetti di interrompere una gravidanza definita folle, anche i familiari ti danno addosso, gli amici ti giudicano e si allontanano. Se non sei più che forte, alla fine cedi... e oggi Sofia non sarebbe al mondo».
Anche Marina e Giancarlo hanno letto la notizia di qualche giorno fa, (di fronte al semplice dubbio che il feto possa non essere perfetto, 7 su 10 non reggono e abortiscono), e per questo accettano di testimoniare: «Su questi temi è necessario riflettere in tempo, perché quando ti danno una notizia così tragica e hai il bimbo in pancia, devi decidere in tempi rapidissimi, sei nel panico, non hai lucidità per pensare, allora devi farlo prima... sperando che poi non ti serva». Aveva 28 anni Marina quando capitò a lei. «Due anni prima avevo partorito Flavio, il nostro primo figlio, inoltre avevamo in affido una ragazza incinta di due gemellini, che come condizione per non abortire aveva chiesto al consultorio che qualcuno la accogliesse con altri due bambini già nati... Prendemmo tutto il pacchetto».
Passato il quinto mese e mezzo di gravidanza, due settimane oltre il limite legale per il cosiddetto aborto terapeutico, Marina ha gravi problemi cardiaci e i farmaci che le vengono prescritti passano la placenta. È a quel che punto che il ginecolo, luminare di grande esperienza, non le dà alternativa: è necessario abortire. Di fronte alla testardaggine di quella madre che sembra non capire la gravità, alza anche la voce, «sentirlo urlare che ero un’incosciente mi umiliava. Mi disse persino che mi avrebbe fatto il "piacere" di dichiarare due settimane in meno di gravidanza per farmi rientrare nei termini di legge. Con Giancarlo decidemmo che la fiducia nel Signore e l’amore tra noi due sarebbero stati sufficienti per far fronte a qualsiasi avvenimento. Sofia per noi c’era ed era già insindacabile».
Sofia nacque sanissima e Marina fece appena in tempo a «contarle le dita – ride – è assurdo ma è ciò che ho fatto, c’erano tutte. Si aspettavano un’ecatombe di bambina ed era bellissima. Subito dopo persi conoscenza... mi salvarono per un pelo».
«Sono io la sopravvissuta», si presenta Sofia, rientrata dall’università dove studia, non a caso, neuropsicomotricità dell’età evolutiva e ha a che fare tutti i giorni «con pseudomostri, come li chiama qualcuno, in realtà bambini dolcissimi, vite luminose. Guardo le loro mamme e la forza con cui li hanno voluti mettere al mondo nonostante spesso avessero una diagnosi prenatale». Già, perché come sottolineano Marina e Giancarlo il fatto che Sofia sia nata sana è solo una gioia in più, ma fosse andata diversamente non cambierebbe il concetto di base, «che la vita è un dono e non è la patologia a determinarne la qualità ma quanto ci si vuole bene. Nessun mito è più falso della perfezione: chi mi garantisce che i miei tre figli nati sani resteranno "perfetti" o aderiranno alle nostre aspettative di genitori?». Dopo Sofia è nato anche Matteo, oggi 14 anni, ma nel viavai di quella cucina (causato da due torte appena sfornate) si affacciano anche Giuliana, 15 anni, Tiziano, 13, Filomena, 10, tutti figli in affido. «Il nostro faro però è Marta», tuttora avvolta tra le braccia del padre.
In casa la chiamano "wireless", perché il suo microscopico cervello non dovrebbe funzionare e il nervo ottico non lo ha proprio, eppure è chiaro che vede, e quando è il caso sorride pure. La scienza non sa che dire. Il Papa però è in diretta dall’ospedale di Padre Pio, «il cuore di questi piccoli è come un’antenna – sta dicendo in tivù – capta il segnale di Dio...».
Silvio e Sabrina: La chemio aveva avvelenato il feto. «Invece Giovanni è sano e vispo»
Gli occhi di Silvio ridono sempre e sono la prima cosa che vedi. Poi ti accorgi delle ruote e che nell’abbracciarti resta seduto: «Ho la sclerosi multipla, me l’hanno diagnosticata a 12 anni nella forma ricaduta-recupero», quella a fasi alterne, «nel 2000 però mutata in progressiva cronica, così sono passato alle cure forti, vere bombe di chemioterapia: iniziarono a mettermi in vena tanto di quel liquido blu che scherzando coi medici dicevo che presto sarei diventato nobile». Silvio Facco, 55 anni, e sua moglie Sabrina Magni, 48, infermiera all’ospedale, si sono conosciuti da ragazzi nell’Operazione Mato Grosso, il movimento di volontariato missionario che aiuta i poveri dell’America Latina, e la malattia non ha spaventato il loro progetto d’amore. Se non che dopo anni di matrimonio una diagnosi di infertilità ha messo una pietra sopra al sogno di avere dei figli e «l’ipotesi dell’inseminazione artificiale è stata subito scartata, non volevamo forzare la mano al Signore. Abbiamo invece scelto l’adozione e portato avanti tutto il percorso, disposti ad accogliere anche più fratelli – continua Silvio –. Alla fine ci eravamo accordati con una suora di un lebbrosario in Brasile, dove tanti bambini erano abbandonati, e siamo felicemente arrivati all’ultimo colloquio con gli assistenti sociali, ma lì Sabrina si è sentita male... Non ce ne intendevamo: era solo incinta. Questa volta avevamo davvero forzato la mano del Signore – ride –, che ha detto e va bene, ve lo do questo figlio».
Avrebbero voluto proseguire comunque anche l’adozione, «ormai la gravidanza psicologica l’avevamo fatta», spiega Sabrina, ma il giudice ha deciso diversamente, «prima svezzate il vostro, poi ne riparliamo». Così nel 1997 è nato Giacomo. Poi la coppia che la medicina considerava sterile ha concepito altri due figli (abortiti spontaneamente) e in seguito Samanta, nata poco prima che la sclerosi si aggravasse e Silvio dovesse anche lasciare la cattedra alla scuola professionale. Arrivano ora le bombe di chemio e con queste il divieto assoluto di concepire... «Noi ci sentivamo già graziati dal Signore, non pretendevamo altri figli, ma nemmeno concepivamo la vita come programmabile», continua Sabrina. Giovanni è arrivato così, senza che lo cercassero, accolto come ogni bella notizia.
Il panico invece si è diffuso tra i medici, a partire dal neurologo che a fine seduta chemioterapica ha chiesto se ci fossero novità. «Stavo uscendo, ero già sulla porta e ho risposto che mia moglie era incinta. È successo di tutto. Il giorno dopo siamo stati convocati e il primario ci ha detto che non c’era scelta, dovevamo abortire perché, testuale, nostro figlio sarebbe nato certamente handicappato. Ho chiesto con quale handicap ma non mi sapeva rispondere, che percentuale di rischio c’era, e nemmeno questo si poteva dire. Alla fine di fronte alla mia testardaggine ha sperato in mia moglie, "lei in casa ha già un handicappato, ne vuole due?", le ha detto. Era un bravo medico, cercava solo come convincerci. Alla fine ha calcato la mano, "volete davvero rischiare di mettere al mondo un mostro?". Eravamo sconvolti, ma più lui si infervorava e più nella mente mi risuonava il salmo che dice di confidare nel Signore, non nell’uomo. La Provvidenza da una parte ti lascia tentare, dall’altra ti dà sempre gli strumenti per rispondere».
Dunque anche Giovanni ce l’ha fatta e della sua storia conosce tutto, così hanno voluto i genitori perché «ci rifletta quando sarà adulto. Occorre dare ai figli gli strumenti per capire cos’è l’aborto: molti infatti ci arrivano ingenuamente, nella fretta, nella fatica, nella paura, nel dolore».
Nei mesi della gravidanza Sabrina non ha mai fatto trapelare nulla, ma i bambini colgono tante cose e una sera Giacomo e Samanta decisero che ogni giorno avrebbero recitato a tavola un’Ave Maria per Giovanni fino alla nascita, «e da allora continuiamo a farlo anche ora che Giovanni ha 11 anni. Il nostro mostriciattolo è un mostro, sì, ma di furbizia, guai a trattarlo da bambino, l’altro giorno mi ha redarguito: papà, ma lo vuoi capire che ormai sono un preadolescente? Devono averglielo detto a scuola», ride il papà.
Che con il piede sinistro e i pedali dell’auto invertiti riesce ancora a guidare la macchina e infatti saluta per correre fuori: «Abbiamo un quarto figlio, Christian, 24 anni, rimasto senza padre da bambino. Vado a prenderlo al lavoro!».