Ansa
Come successo per le manganellate ai ragazzi a Pisa, dopo qualche giorno Giorgia Meloni rompe il silenzio su un altro fronte divenuto bollente negli ultimi giorni: gli accessi abusivi alle banche dati e la relativa inchiesta di Perugia sui presunti dossieraggi creati alle spalle di personaggi politici e anche del mondo dello sport e dello spettacolo. E non sono, le sue, parole banali, ma un vero atto d’accusa: «Ritengo gravissimo che in Italia ci siano funzionari dello Stato che hanno passato il loro tempo a violare la legge facendo verifiche su cittadini, comuni e non, a loro piacimento per poi passare queste informazioni alla stampa. Utilizzare così le banche dati pubbliche non c’entra niente con la libertà di stampa», sono metodi «da regime ». e vanno individuati «i mandanti ». Uno dei quali già c’è: è «Carlo De Benedetti», noto a suo tempo come tessera “numero 1” del Pd, col suo giornale “il Domani”, a un giornalista del quale - Giovanni Tizian - il finanziere (indagato) Pasquale Striano avrebbe passato i documenti. Mentre Guido Crosetto, il ministro della Difesa che con la sua denuncia diede avvio all’indagine, sottolinea di non parlare «per rispetto dell’inchiesta» sottolinea che «parlano gli indagati», la premier pronuncia queste frasi in Abruzzo, terra dell’ultima battaglia in corso per le Regionali di domenica.
Sono dichiarazioni che fanno il paio con quelle dell’altra leader rivale che rompe il silenzio: Elly Schlein. La «schedatura illegittima» di circa 800 persone è cosa di «una gravità inaudita»: anche la leader del Pd non usa mezzi termini per bollare l’inchiesta aperta dalla procura di Perugia come un vero «scandalo». E, ospite del salotto Rai di Vespa, chiede di fare «estrema chiarezza» per «evitare che fatti simili possano accadere ancora». Dal suo partito, intanto, Walter Verini, componente della commissione Antimafia, accende invece i riflettori sul campo avversario: «Io non escludo niente, neppure regolamenti di conti interni alla destra », afferma. Il mantra del partito è la richiesta di fare piena luce. E la difesa della Dna, la Direzione nazionale antimafia, è un filo che lega Pd e M5s. Dopo l’ultimo ufficio di presidenza della commissione Antimafia, il vicepresidente forzista Mauro D’Attis aveva chiesto assieme ad altri colleghi che il deputato del Movimento Federico Cafiero De Raho si astenesse dal partecipare alle sedute che riguardano l’inchiesta «perché all’epoca dei fatti era il Procuratore nazionale antimafia». Ieri è stata Italia Viva a chiedere anche per lui una audizione (oggi tocca a Melillo, attuale Procuratore nazionale, e domani a Cantone): «So che non ha precedenti - ha premesso la senatrice Raffaella Paita -, ma a questo punto mi appare necessario farlo. La presidente Colosimo valuterà la richiesta». «La Dna di ieri e di oggi, è parte lesa in questa vicenda, bisogna tutelare le istituzioni che contrastano le mafie e la criminalità organizzata », rimarca in replica sempre Verini. Un concetto ribadito dalla responsabile Legalità dei dem, Enza Rando: «La Procura nazionale non può finire sotto attacco della politica, non si può venire in Senato e chiedere ispezioni su di essa, significa ribaltare l’ordinamento istituzionale. È davvero questo il messaggio che si vuole mandare ai cittadini? ».
La posizione dei grillini è affidata al senatore Roberto Scarpinato, secondo cui l’inchiesta «ha messo in luce deviazioni che risultano ascrivibili esclusivamente a singoli operatori, la Procura nazionale e il suo vertice sono eventualmente vittime del tradimento messo in atto dai due pubblici ufficiali - dice anche lui -. Alterando la realtà, esponenti della maggioranza stanno tentando un bieco gioco al massacro, preparando il terreno alle riforme per sottoporre la giustizia al controllo della politica». Sono «volgari insinuazioni» quelle mosse contro De Raho «da vari esponenti della maggioranza e della stampella Iv - ha rincarato la pentastellata Vittoria Baldino -, é la sistematica operazione di violenta repressione politica del dissenso».