giovedì 11 gennaio 2024
Famiglie dei giovani pazienti sul piede di guerra, 40 associazioni scrivono al ministro Schillaci e alla premier Meloni: «La nuova legge di Bilancio ha spazzato via il fondo di 25milioni di euro»
Una foto di scena del film tv "Briciole", che racconta storie di anoressia

Una foto di scena del film tv "Briciole", che racconta storie di anoressia - Ansa

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È un’epidemia silenziosa e in costante crescita: sono tre milioni e duecentomila, oggi in Italia, le persone affette da anoressia e bulimia, in gran parte adolescenti e per un terzo bambini dagli 8 ai 12 anni. E il carico della loro cura, lunga e impegnativa, è quasi sempre sulle spalle delle famiglie. Ma adesso i servizi sanitari che si occupano di queste patologie rischiano di “chiudere”, o di essere ridimensionati se non verrà prorogato il fondo di 25milioni di euro “per il contrasto dei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione” previsto dalla precedente legge di Bilancio a favore delle Regioni e non rinnovato dal nuovo provvedimento licenziato dal governo. Per questo le 40 associazioni che riuniscono i familiari dei pazienti, i quali potrebbero trovarsi senza assistenza, hanno scritto al ministro della Salute Orazio Schillaci e alla premier Giorgia Meloni chiedendo la proroga dello stanziamento. Gli stessi operatori del settore hanno messo in atto una mobilitazione che potrebbe sfociare in una protesta eclatante se non vi fossero risposte concrete. Sono 126 le strutture, di cui 122 del Ssn e le altre del privato accreditato che erogano i trattamenti medici e psicologici specifici per queste malattie, cure che possono comportare anche lunghi ricoveri. ““Nessuno si aspettava che il provvedimento non venisse prorogato – commenta Laura Dalla Ragione, una delle massime esperte dei disturbi dell’alimentazione e referente dei centri di cura dell’Umbria -, la speranza ora è che il Parlamento metta mano al più presto a questa “dimenticanza”».

Un’emergenza da combattere subito

Il “fenomeno” delle ragazze e dei ragazzi affetti da bulimia e anoressia si è ingigantito dopo il Covid. Si calcola che i casi siano aumentati del 30-40% (i ricoveri durante e dopo il lockdown erano saliti del 50%). Aumenta la componente maschile, soprattutto nelle nuove generazioni, ma la stragrande maggioranza delle pazienti sono donne. E l’età scende ancora. «Parliamo spesso di bambini - osserva Maruska Albertazzi, attivista dell’associazione “Mi Nutro di Vita” -. Anche le cure per loro sono offerte in pochi centri, eppure circa il 20% delle diagnosi sono sotto i 14 anni, il 10% sotto i 12 anni. Ci sono diversi casi di bambini di 6-7 anni ed è difficilissimo gestire la cura perché è un’età in cui non si può fare la psicoterapia che si fa con gli adulti, è un lavoro diverso e molto più complesso, e serve personale specializzato. Così i viaggi della speranza delle famiglie continuano».

La questione è complessa. Stiamo parlando di malattie che vanno intercettate per tempo, prima che producano effetti devastanti. E il ruolo di mamme, papà, fratelli, nonni, è essenziale. Devono potersi accorgere che qualcosa non va nel loro congiunto: ci sono dei segnali, nel comportamento alimentare e nei rapporti domestici che bisogna saper leggere. È, dunque, un problema anche educativo e culturale, oltre che medico e psicologico. E quando ci si trova a dover ricorrere agli specialisti, la strada si fa ancora più impervia. A Milano, raccontano i familiari di giovani anoressici e bulimici, per fare una prima visita si deve attendere dai 6 agli 8 mesi. A Roma dai 9 ai 12 mesi. Così si compromettono le possibili guarigioni. Ovunque le liste d’attesa sono lunghissime.

Il calvario delle famiglie

Le famiglie dei pazienti, dunque, sono sul piede di guerra. «Queste malattie stanno diventando incurabili non perché lo dice la medicina o la scienza, ma perché lo sta decretando la politica» sostiene Stefano Tavilla, uno dei padri della Fondazione Fiocchetto Lilla e presidente di “Mi nutro di vita”, che ha deciso di impegnarsi per i diritti delle persone che soffrono di queste patologie dopo la morte della figlia Giulia, 17 anni, per bulimia. «C’è un disegno politico cioè» che ha portato all’azzeramento, decretato dall’ultima manovra, del Fondo «che nasceva – ricorda Tavilla – perché a fine 2021 in sede di legge di Bilancio veniva approvato un emendamento con il quale veniva data a queste malattie un’autonomia all’interno dei Lea, Livelli essenziali di assistenza. Nel frattempo, questo Fondo doveva traghettarci verso il nuovo assetto per il tempo che serviva a mandare in porto la revisione dei Lea. Cosa vogliamo noi ora? Vogliamo i Lea. Questa legge è ferma da 2 anni, manca il decreto attuativo. Se queste malattie venissero riconosciute nei Lea, avrebbero fondi dedicati in maniera uniforme per tutte le Regioni».

Il caso di Elena e dei suoi genitori è emblematico. «Anche io e mio marito - racconta la mamma Laura - ci siamo fatti seguire privatamente. Mi sono dovuta fermare per seguirla. Nei momenti più bui, quando mia figlia stava male, era come se si avvolgesse un velo nero su tutta la famiglia. Ritengo sia importante la presenza di un terapista familiare che ti segue. È come se con questa malattia non ci si capisse più, si parlassero lingue diverse. E invece è importante che la famiglia diventi un supporto nel percorso verso la guarigione». Oggi Laura aiuta altre famiglie tramite un’associazione: «Dico loro di fidarsi, ma non troppo, aprire gli occhi e fare valutazioni. Con questa malattia i nostri figli non sono lucidi, la malattia decide per loro e rema contro la cura». Il fratello di Elena oggi si è laureato in medicina e ha scelto psichiatria come specializzazione, la storia della sorella ha segnato anche lui. Ed Elena? «Ha fatto la maturità, cosa che non osavamo sperare - racconta Laura -. Noi all'inizio. quando era in terapia nel centro, non potevamo vederla, andavamo nel weekend e lei usciva in giardino. La salutavamo con il suo labrador, per farle sapere che c'eravamo. Anche se abbiamo capito che non potevamo aiutarla noi. Il nostro ruolo è di genitori. I ricoveri in queste strutture non sono a lungo termine, massimo 6-9 settimane. Per lei erano poche, dopo tutti i traumi, il supporto sul territorio mancava. Noi lo abbiamo trovato poi su Sestri Levante. E al Centro di salute mentale, che dista poco dal Centro disturbi alimentari. Se potessero lavorare insieme le cose funzionerebbero meglio, ma non si parlano. Lì l'hanno comunque seguita bene. Poi ho tenuto la nutrizionista di Piancavallo, di cui Elena si fidava. Andavo ogni 15 giorni a Verbania, 2 ore e mezzo di macchina».

Dopo il terzo ricovero al Piancavallo, prosegue la mamma di Elena «mi hanno consigliato una comunità in Sardegna specializzata in disturbi alimentari. Siamo riusciti a ottenere un'autorizzazione per questo centro privato convenzionato, visto che Elena aveva provato tutto ciò che c'era sul nostro territorio. Sennò costerebbe 7mila euro al mese e sarebbe insostenibile per noi. Da fine maggio 2023 è lì, in provincia di Cagliari, lontano da casa. A me sembra funzioni. Dopo un inizio difficile, però, questa malattia ha bisogno di un lungo cammino. A marzo tornerà e sono solo preoccupata del fatto che qui non so come farò a farle continuare quello che sta facendo».

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