Soldati italiani in ritirata dalla Russia, 1943.
Furono più di 100 mila i soldati italiani morti o dispersi sul fronte russo dopo la disastrosa ritirata dell'inverno del 1943. La maggior parte vennero seppelliti in fosse comuni o nei cimiteri dei villaggi nella regione del Don, ai confini con l'attuale Ucraina. Migliaia di famiglie attesero invano il ritorno dei loro congiunti ma da allora non hanno saputo più nulla. A restituire una giusta memoria a questi caduti per la patria, quasi tutti giovani tra i 18 e i 25 anni, ci pensano ora l'ex alpino Antonio Respighi e sua moglie Gianna, due pensionati che risiedono a Mortara (Pavia): il loro compito è consegnare ai parenti delle vittime le piastrine militari che hanno recuperato nei luoghi delle battaglie avvenute 74 anni fa.
Una missione nata quasi per caso. «Nel 2009 abbiamo fatto col camper un viaggio di gruppo in quei luoghi storici, siamo stati a Nikolajewka e Rossosch – racconta Respighi – e volevamo raggiungere il campo di prigionia di Uciostoje (a 330 km da Mosca) ma ci accorgemmo di aver sbagliato strada. Decidemmo quindi di pernottare ai margini di un parco a Miciurinsk. E proprio lì – prosegue l'ex alpino – si presentò a noi un giovane che possedeva, dentro un paio di vecchie gavette, circa 140 piastrine di riconoscimento di soldati italiani. Gli chiedemmo se ce le poteva consegnare, gratuitamente, per restituirle ai familiari in Italia. All'inizio si rifiutò ma insistemmo e, visti i nobili motivi, alla fine si convinse e ce li regalò».
È cominciato così, a partire dai dati anagrafici che si potevano leggere nelle placchette d'ottone, un paziente lavoro di identificazione che ha portato, finora, alla consegna di 330 piastrine ai familiari delle vittime in altrettante cerimonie ufficiali svoltesi nei Comuni, in presenza di sindaco, autorità locali e scolaresche. I coniugi Respighi sono tornati più volte, in seguito, a loro spese, in quelle terre lontane per cercare altre piastrine. «Molti contadini di quelle zone ne hanno trovate decine e decine nei boschi e tra i campi e per fortuna non li hanno buttati via» commenta Antonio.
Con l'aiuto delle famiglie, attraverso ricordi e testimonianze di parenti e amici, sono state ricostruite tante storie dei militari che non sono più tornati a casa. Vicende commoventi come quella del soldato Pasquale Prencipe, nato a San Giovanni Rotondo (Foggia) nel 1909. Sposato, con tre figli, lavorava in un mulino. Per un paio d’anni ha inviato dal fronte lettere affettuose alla moglie e ai bambini. Poi più nulla. Era analfabeta e dettava le missive a un commilitone suo compaesano. Pasquale è morto per un atto di altruismo: di guardia a una polveriera assieme al suo plotone, all'arrivo dei nemici si rifiutò di scappare per non lasciare solo l’amico Michele che aveva la febbre alta. Ed è stata la fine per entrambi.
Il caporale Renè Carazzone, nato a Bagnasco (Cuneo) nel 1922, invece, era il primo di tre figli. Terminate le scuole elementari aiuta il papà nella bottega di maniscalco-fabbro. Va poi a lavorare nella miniera di carbone di Nucetta dove tempera le punte delle trivelle, aggiusta gli attrezzi in ferro, sistema e fa brillare le mine. È fidanzato con Angioletta. Doveva essere esonerato dal servizio militare ma il congedo non arrivò in tempo. La mamma corse alla stazione con il foglio in mano, ma il treno per la Russia era già partito. René giunse a Rossosch dove il suo battaglione venne annientato da un assalto nemico: su oltre 1000 alpini ne restarono vivi solo 47 e lui è tra questi. Morirà però qualche giorno dopo a Miciurinsk durante un combattimento. Dal fronte scriveva così ai genitori: «Fatevi coraggio, e mi raccomando a mio fratello Franco che cresca presto e soprattutto buono [...] E così terminando vi saluto caramente e vi bacio tanto tanto, vostro figlio René». Aveva 21 anni.