Corna di Darfo distrutta dall’ondata di piena - Archivio Meta Ardesio
Marco Birolini) «Le case non c’erano più. Ma non c’era nessuno che gridava o piangeva. Stavano lì, atterriti». Il disastro del Gleno è una storia raccontata nel silenzio. Quello che calò sulla Val di Scalve e sulla Val Camonica dopo il crollo della diga, ben descritto dalle parole della signora Francesca, tra i pochi sopravvissuti di quel tragico 1° dicembre 1923. Ma anche quello che mai si è incrinato nei 99 anni successivi. Tranne sporadiche commemorazioni, la catastrofe è sempre rimasta ai margini della storia italiana. I morti furono 356, ma è impossibile dire se la cifra sia esatta. Ci sono stime che parlano di almeno 500 vittime. Alcuni cadaveri non si trovarono mai, altri erano già sepolti e si mischiarono ai vivi: la furia delle acque, 22 mila metri cubi al secondo lanciati verso il fondovalle (la piena del Po non va oltre i 13 mila), spazzò via persino i cimiteri.
La notte precedente almeno una ventina di neonati vennero alla luce, ma non fecero a tempo ad essere registrati all’anagrafe. Tutte le vittime, ufficiali e no, hanno però un destino comune: sono state dimenticate. Nei giorni dopo la sciagura, in Val di Scalve arrivò persino re Vittorio Emanuele III, accompagnato da Gabriele D’Annunzio. Se ne parlò a lungo sui giornali, si fece un processo con 300 testimoni. Ma poi il disastro scivolò nell’oblio. Il rudere della diga troneggia severo sulla Val di Scalve, dove ancora oggi dividono il tempo in “prima” e “dopo” il Gleno. Ma altrove se ne è perso il ricordo. Un po’ perché all’epoca non c’era la televisione ad amplificare il dramma, un po’ per quel carattere ruvido e schivo di bergamaschi e bresciani, che un minuto dopo essersi asciugati le ultime lacrime si rimboccarono le maniche per ricostruire. Ma c’è forse anche altro, sul fondo di quel lago torbido che è la memoria collettiva italiana. Un incubo rimosso, fatto di verità non dette, interessi di parte, persino fake news ante litteram, come il corpo di quella madre accanto al figlio, ripescati però in punti diversi e accostati a beneficio di obiettivo. Un’immagine buona per commuovere, ma anche per distrarre l’opinione pubblica dalle cause del disastro.
La diga prima del crollo - Ingegner Conti
Per onorare i morti, ma anche per tentare di capire, tocca partire dall’inizio. Il 1° dicembre 1923 piove. La diga è stata riempita da un mese con 4 milioni di metri cubi d’acqua che serviranno a produrre energia elettrica, di cui il sistema industriale del Nord Italia è sempre più assetato. Virgilio Viganò l’ha voluta costruire per alimentare i suoi cotonifici. In origine il progetto prevedeva una struttura classica, a gravità, poi in corso d’opera si passa al sistema ad archi, che contiene la spinta idraulica basandosi sulla contrapposizione di forze fisiche. Nessuno però lo comunica al genio civile di Bergamo, che se ne accorge durante un sopralluogo. Parte la segnalazione al ministero dei Lavori pubblici, che risponde con una diffida: la ditta Viganò presenti subito i disegni della variazione. Detto fatto, è tutto a posto. Anche il collaudo non rileva criticità.
Alle 7.15 qualcuno ha l’impressione di sentire un boato. La diga crolla, in pochi istanti l’acqua raggiunge il paesino di Bueggio e lo spazza via. Il maresciallo dei carabinieri di Vilminore, Virgilio Morcelin, distante poco più di un chilometro in linea d’aria, guarda e vede che la centrale, la chiesa e il camposanto sono scomparsi.
Alle 7,30 l’ondata, che arriva a toccare anche 25 metri di altezza, si abbatte sul piccolo borgo di Dezzo, cancellandolo. La piena prosegue travolgendo ogni cosa, fino a investire Corna di Darfo, in Valcamonica. Infine, dopo 45 minuti, si sfogherà nel lago d’Iseo: il livello si alzerà di 6 centimetri in meno di due ore. Un pescatore dirà che il Sebino era lievitato addirittura di 55 centimetri, distruggendogli le reti. Ma era una menzogna per intascare un risarcimento non dovuto. Capitolo doloroso, questo del ristoro dei danni. I gruppi industriali ottennero una buona fetta della somma, insieme a sgravi fiscali per la ricostruzione. Alla gente comune restarono le briciole. Con il prezzo vergognoso dato alla vita di un bambino di 6 anni: 1700 euro attuali, secondo quanto ricostruito dall’avvocato Benedetto Maria Bonomo, che ne scrive nel libro La tragedia della diga del Gleno (Mursia), riportando la testimonianza di Concetta Reali, storica ostetrica di Darfo: «I sussidi furono distribuiti in fretta e furia, non certo con equità. La povera gente aveva da pensare ai propri tristi casi, i trafficoni ebbero buon gioco a farne man bassa».
I resti della diga del Gleno - Riccardi
Vizio antico, lucrare sulle grandi sciagure italiane. Come da tradizione, anche quella del Gleno rimase senza colpevoli. In primo grado furono condannati il proprietario Virgilio Viganò e l’ingegnere capo Giovan Battista Santangelo: 3 anni e 4 mesi ciascuno. In appello però Santangelo viene assolto per insufficienza di prove, Viganò muore prima della sentenza. Per la giustizia italiana, dunque, non ci sono colpevoli. A 100 anni di distanza non si è ancora capito il perché del crollo. Gli studi dell’Università di Bergamo (da cui è nato il libro A partire da quel che resta, Franco Angeli) hanno evidenziato cause idrauliche. Nel convegno organizzato per il centenario, l’ingegner Marco Pilotti ha spiegato: «La tecnica costruttiva degli archi è molto razionale. Però i contrafforti sono slegati: se uno collassa gli altri non lo sostengono e anzi cadono a loro volta. Sotto quello crollato c’erano evidenti trafilamenti di acqua, che spingendo da dietro alleggerirono la struttura creando una sottopressione». Una porzione, insomma, sarebbe “scivolata”. A ciò si aggiunga la scarsa omogeneità del materiale utilizzato durante la costruzione, per di più di qualità non eccelsa. Durante il processo diversi testimoni riferirono dubbi e dicerie sul colosso dai piedi d’argilla. La vox populi, però, si levò tardiva. «Non mi è mai capitato, prima del disastro, di sentire persone che accennassero alla cattiva costruzione della diga del Gleno poscia franata» disse in aula il maresciallo Morcelin.
Ciò che resta della diga oggi - Anna Magri
L’avvocato Bonomo, che studiò a fondo disastro e processo (legatissimo alla Val di Scalve, è stato anche sindaco di Colere), porta avanti con convinzione una tesi “eretica”: «A provocare il crollo è stata una bomba messa nel condotto di scarico, probabilmente azionata dagli anarchici della Valcamonica. Una versione scomoda sia per gli ambienti di sinistra, che per il fascismo: il Duce non voleva far passare l’idea che il regime non fosse in grado di garantire la sicurezza. Forse l’attentato mirava soltanto a svuotare il bacino, ma la diga aveva chiaramente dei difetti ed è crollata. Furono usati, secondo le perizie, 50 chili dei 70 rubati in zona nei giorni precedenti». Un gesto punitivo verso i fascisti della valle, dunque, che sarebbe andato oltre le intenzioni, innescando sensi di colpa negli stessi “sovversivi”. Di qui reticenze e versioni di comodo portate avanti negli anni, con malcelato fastidio verso l’ipotesi dell’attentato. La tesi della bomba emerse durante il processo perché su di essa poggiava la strategia della difesa, che in questo modo puntava a discolpare la proprietà. Il gioco delle parti, certo, supportato però da una perizia firmata dal generale Ottorino Cugini, generale del genio del II Corpo d’armata.
«Leggende», taglia corto l’ingegner Pilati. Anche peggio, secondo lo storico del fascismo Mimmo Franzinelli: «Ipotesi strumentali e insultanti, la costruzione della diga fu accompagnata da tangenti e omissioni. E il regime nascose la verità perché voleva far vedere che in Italia tutto funzionava bene». Ma Bonomo ha calato l’asso. Da buon avvocato ha scovato la carta che mancava, cioè la perizia affidata dal tribunale a due esperti di fiducia (uno era il generale Aldo Monteguti), che constatano come, ad esempio, la passerella di accesso alla galleria sia tranciata di netto. Questo indizio, come altre tracce, «non escludono, ma anzi possono indurre a concludere che uno scoppio di materia esplosiva siavi stato».
Paola, senza più madre e fratelli, a nove anni scopre cosa significa diventare una «scampata»
(Francesco Riccardi) È un sabato mattina piovoso il 1° dicembre 1923 a Corna camuna, frazione di Darfo. Paola Dellasera ha nove anni e sua madre le ha chiesto di passare dal macellaio, nella parte alta del paese, prima di andare a scuola. Non fa in tempo ad entrare nella bottega che un vento forte la scuote e alcune persone la trascinano di corsa ancora un po’ più in alto. C’è un rumore fortissimo, sovrasta persino le urla di chi dice che «il fiume ha distrutto il ponte, l’acqua travolge tutto». Sono pochi minuti prima delle 7,30 e ancora non si sa che a cedere è stata la diga del Gleno, più in alto in Val di Scalve. Minuti che trasformano la piccola Paola in una sopravvissuta, «ie hcampacc», è scampata dicono di lei, che scopre solo in quel momento il significato di quella parola. La sua casa, infatti, quasi non si riconosce più dov’era. L’acqua e il fango hanno travolto e ucciso sua madre Caterina di 40 anni, due sorelle di 6 e 2 anni e il fratello di 5. Si salva solo il padre Giovanni, 41 anni, che era già fuori a lavorare. Tutto il resto – affetti, casa, beni, vestiti e fotografie – è cancellato. Intorno a dove viveva una famiglia semplice, serena, ora ci sono i cadaveri che affiorano, il fango e le macerie, quelle fisiche e quelle nell’anima. Ci sono le vittime da riconoscere: 104 solo a Corna. «Ma cosa vuol dire ri-conoscere un membro della tua famiglia, certo che lo conosci», pensa la bambina che fatica a realizzare di aver perso quasi l’intera famiglia.
E perduto, per noi, sarebbe anche il ricordo – perché negli “scampati” prevale il pudore del dolore e in genere evitano di parlare del “Grande disastro” – se non fosse, in questo caso, per la volontà di uno dei figli di Paola Dellasera, Francesco Zeziola, che ha raccolto in un libro (I sopravvissuti, gli invisibili della tragedia, Valgrigna edizioni) i frammenti di racconto quasi “strappati” alla madre durante la vita. Un’esistenza, quella di Paola, profondamente segnata dalla tragedia, rimasta costantemente sottopelle, e nel cuore, quasi nascosta. Un lutto probabilmente impossibile da elaborare, se non alla maniera dei contadini bergamaschi e bresciani di inizio secolo scorso: pensare a lavorare, andare avanti senza lamentarsi, in un misto di fede e rassegnazione. «Il disastro del Gleno, di cui parlo raramente, mi ha reso combattiva, dura, intransigente, poco propensa a comprendere chi prova dolore per motivi futili, perché io so cos’è il dolore vero», dice Paola di sé.
Paola Dellasera - Famiglia Zeziola-Dellasera
Dal giorno dopo la tragedia passeranno in tanti in quelle terre colpite: il vescovo, il Re e perfino il poeta D’Annunzio. In paese ci si organizzerà per ospitare gli hcampacc e saranno soprattutto le suore a «dare un’educazione ai bambini rimasti a vivere nel dolore». Si farà anche il processo ai fratelli Viganò, i proprietari della fabbrica tessile per la quale vollero realizzare la diga, malprogettata e peggio costruita. Il padre di Paola andrà alla prima udienza con un fucile «per copà i Viganò», che saranno sì condannati ma a pene lievi, così come “leggeri” saranno i risarcimenti stabiliti dai giudici.
Poi la vita tornerà a prendere il sopravvento: il padre di Paola, impossibilitato a lavorare e insieme educare una figlia da solo, sposerà la sorella della moglie, nasceranno altri fratelli-cugini, lei si sposerà a sua volta e avrà ben sette figli. Ma la tragedia la accompagnerà ancora. Una figlia, infatti, morirà di malattia a un anno, un’altra a 7 anni per un tumore cerebrale e il penultimo a 4 anni sarà investito da un’automobile. «Il destino, tra il 1923 e il 1953 mi ha tolto sette membri della mia famiglia: madre, tre fratelli e tre figli», dice Paola, morta nel 1994. «Non ho mai perso la fede. Anche se per me è incomprensibile tutto questo dolore».