Sono 17 le persone che si sono tolte la vita nelle carceri lombarde nel corso del 2022, stando all’ultimo rilevamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). L’ultimo caso risale a venerdì scorso e si è verificato nel penitenziario di Monza dove un ragazzo di 24 anni, nonostante fosse sottoposto a sorveglianza per problemi di autolesionismo, si è ucciso. Episodi di questo tipo si sono verificati, oltre che a Monza, nelle tre carceri di Milano, ma anche a Sondrio, Brescia, Pavia, Bergamo e Como.
Oggi in Lombardia ci si trova davanti a un’escalation, rispetto agli scorsi anni: i detenuti che un anno fa si erano tolti la vita in cella al 15 agosto erano sei, per un totale di 13 a fine 2021. Mentre nel 2020 si erano tolte la vita venti persone, e 11 lo avevano fatto entro la metà agosto.
Invertire questa tendenza sembra un’impresa difficilissima. Eppure: «Una telefonata salva la vita». È questo l’appello lanciato dal cappellano del carcere di Busto Arsizio ( Varese) don David Riboldi, sacerdote della diocesi di Milano: «Mi sono rivolto direttamente alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per chiedere di consentire l’uso dei cellulari nelle celle, una proposta sottoscritta nella sua recente visita nel carcere di Busto anche dal presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, e rilanciata dall’ispettore generale dei cappellani, don Raffaele Grimaldi». Tra le cause principali dei suicidi dietro le sbarre ci sono la solitudine, le poche – quando e dove sono presenti – attività rieducative (dal lavoro all’istruzione) e il sovraffollamento. La Lombardia, che ospita 18 istituti di pena dei 190 in Italia, è la peggior regione – secondo l’ultimo rapporto di Antigone – riguardo all’affollamento carcerario: ci sono in media 150 detenuti per 100 posti, con picchi del 190% nell’istituto milanese di San Vittore, ma anche del 174,7% a Busto e del 167,7% a Lodi.
«Mettere i telefoni in cella per prevenire i suicidi non è solo una proposta. È una pratica che dove esiste già, funziona – testimonia don Riboldi –. Recentemente ho ricevuto una chiamata alle 22.30 da un recluso che ho conosciuto al carcere di Busto e che ora sconta la sua pena in un penitenziario del Nord Europa. 'Don, mi sento giù. Ha voglia di ascoltarmi un po’?'. Abbiamo parlato mezz’ora e mi ha detto che subito dopo avrebbe chiamato sua madre». Il nostro ordinamento stabilisce che si possa chiamare solo dieci minuti a settimana. Con la pandemia le video-chiamate erano entrate in carcere per sopperire ai mancati colloqui, «ma questa buona pratica introdotta negli ultimi anni a causa del Covid sta sparendo », dice amareggiato don Riboldi. Il telefono in cella, senza limiti di orari, era stato suggerito lo scorso dicembre per prevenire i suicidi anche dalla commissione parlamentare sul carcere.
Le giornate dei detenuti «sono vuote perché mancano attività ricreative, didattiche e lavorative – insiste il cappellano di Busto –. In carcere lavora solo il 5% dei detenuti. Per aiutare a invertire la rotta ho inaugurato a ottobre 2020, alla presenza della ministra Cartabia, La Valle di Ezechiele, una cooperativa sociale che dà lavoro a persone recluse». Dopo la pausa di agosto saranno quattro detenuti, due persone impegnate nei lavori di pubblica utilità e cinque su richiesta del Tribunale, i lavoratori che raggiungeranno la sede operativa della cooperativa nell’ex vellutificio di Fagnano Olona ( Varese), vicino a Busto.
l cardinale Zuppi in visita alla coop «La Valle di Ezechiele» - .
All’interno della struttura vengono realizzate stampe specializzate, calendari e, in tempo d’Avvento, i cesti di Natale: «Dei 15 detenuti che in questi anni hanno imparato una professione vera, che esiste anche fuori dal penitenziario, e hanno lavorato per La Valle di Ezechiele, nessuno è più tornato dentro. Confermo che lavorare abbatte la recidiva e recentemente un ragazzo, scontata la pena, è stato assunto da un panificio», racconta don Riboldi. Il lavoro, insomma, ripaga e abbatte la recidiva. «Siamo molto soddisfatti di aver fatto produrre ai detenuti le stampe delle magliette indossate dai ragazzi degli oratori nella diocesi di Milano. È un messaggio concreto che vale più di tante parole».