L'unica (quasi) certezza è la data del voto. Ma quale proposta di governo le forze politiche faranno al Paese, resta un mistero. Le coalizioni (meglio chiamarli apparentamenti elettorali) sono più ipotesi che realtà, e coloro che si dichiareranno amici in campagna elettorale saranno solo dei nemici mascherati. I contenuti sono falsati dalla premessa: le maggiori forze politiche fondano le loro promesse fiscali sul superamento del fiscal compact, sul ritorno del deficit verso e oltre il 3 per cento, e non su riforme e tagli di spesa. L’intera contesa è appannata dalla consapevolezza che la sera del 4 marzo l’inquilino del Colle si porterà il pallone a casa e inizierà una partita nuova e diversa: 'colpa' del Rosatellum, o meglio conseguenza ovvia e naturale del fallito referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.
BERLUSCONI E SALVINI UNITI PER FORZA, MA DOPO...
La truppa di centrodestra gode dei favori del pronostico. Ma in realtà un vero e proprio accordo elettorale ancora non è stato siglato. L’incontro tra Berlusconi, Salvini, Meloni e gli altri contraenti dell’alleanza viene continuamente rinviato. Sul fatto che alla fine la coalizione ci sarà, non ci sono dubbi: i collegi la pretendono e il centrodestra non è abituato a farsi del male da solo come accade di sovente nel centrosinistra. Ma i fatti parlano chiaro. La Lega ha messo nel simbolo 'Salvini premier' mentre Forza Italia non ha ancora un capo politico della lista alternativo all’incandidabile Silvio Berlusconi. Il Carroccio pone veti severi contro le forze di centro che si stanno aggregando (la famosa 'quarta gamba'), mentre Fi considera il mondo moderato una risorsa per temperare la vena sovranista del duo Salvini-Meloni. Il leader leghista continua a sospettare che Berlusconi guardi, per il dopo-voto, alle larghe intese. L’ex premier, com’è nel suo stile, continua a lanciare nel mucchio nomi di possibili premier (da Tajani a Gallitelli, da Marchionne a Draghi) che hanno il solo significato di ridurre le ambizioni del giovane segretario del Carroccio. C’è un’intesa di massima sulla 'flat tax' ma sul 'come' arrivarci le risposte ancora latitano. E per quanto Salvini abbia ridotto la portata delle sue sortite euroscettiche, restano divergenze profonde su Ue, migranti e i dossier più caldi del momento.
RENZI E LA COALIZIONE CHE STENTA
Circa l’alleanza di centrosinistra costruita intorno al Pd, per ora sono più gli annunci che le certezze. L’unica lista effettivamente nata è quella 'ulivista' di 'Insieme' che raccoglie socialisti, verdi e civici che si richiamano all’esperienza di Romano Prodi. I Radicali di 'Più Europa' sono alle prese con seri problemi burocratici con la raccolta delle firme che potrebbero spingerli, per necessità, a correre da soli e non apparentati. Il progetto centrista targato Casini-Lorenzin-Dellai, che dovrebbe recuperare an- il Partito democratico vedrebbe seriamente allontanarsi la possibilità di competere con M5S sul totale dei seggi vinti. Già i sondaggi in calo stanno nuocendo al morale della truppa dem, l’assenza di alleati rischierebbe di aumentare la sensazione di isolamento del segretario e potrebbe indurre nell’elettorato l’idea di dirottare il voto su centrodestra o M5S, su chi insomma è considerato favorito nei collegi. Nel centrosinistra, le cose non vanno meglio dal punto di vista dei contenuti: è vero che l’omogeneità programmatica è maggiore, ma è altrettanto vero che è difficile tenere insieme nello stesso calderone elettorale, per esempio, le politiche migratorie di Minniti e Bonino o l’impostazione sui temi sensibili di Casini, socialisti e radicali. Le proposte di Renzi, inoltre, continuano ad essere vissute - dentro e fuori il partito - come qualcosa di personale, non condiviso. Non tutti nel centrosinistra, ad esempio, sono convinti che la soluzione per sostenere crescita e famiglia sia tornare al 3 per cento di deficit. Lo stesso Gentiloni, più volte, ha chiesto di salvaguardare i sacrifici fatti dal Paese ed evitare nuove avventure sui conti pubblici.
M5S E LA TENTAZIONE CENTRISTA
Senza alleati per scelta statutaria, M5S gioca la partita parallela di diventare primo partito ed essere decisivo negli assetti post-voto. La scommessa è che nessuna delle due coalizioni sarà in grado di governare da sola, e che nemmeno una riaggregazione di forze che va da Forza Italia al Pd avrà i numeri per formare una maggioranza. L’idea avanzata dal candidato premier Luigi Di Maio è quello di un esecutivo pentastellato aperto però al contributo di «chi ci sta». È un passo avanti rispetto al dogma dell’autosufficienza assoluta e senza macchia, forse ispirato dalla moral suasion del Colle che vuole, dopo il voto, forze politiche responsabili che non lascino il Paese nel caos per calcolo politico. Quanto ai contenuti, l’asset di M5S è il reddito di cittadinanza, da finanziare anch’esso, ovviamente, in deficit. Ciò che nuoce al Movimento fondato da Beppe Grillo sono le difficoltà che stanno incontrando Virginia Raggi a Roma e Chiara Appendino a Torino. L’'affidabilità' di M5S sarà un tema della campagna elettorale e potrà avere un certo effetto nella gara alla conquista dei tanti indecisi e di milioni di italiani tentati dall’astensione.
LA SINISTRA DI GRASSO CHE INQUIETA IL PD
Il programma di Leu, in sostanza, è rifare il centrosinistra invertendo tutte le politiche di Matteo Renzi, a partire, per fare degli esempi, dall’Imu sulla prima casa e il bonus da 80 euro. Va in questa direzione la scissione dal Pd organizzata da Bersani e D’Alema, va in questa direzione la discesa in campo come leader di Pietro Grasso (e Laura Boldrini). Il 'sogno' è agguantare la doppia cifra. Ma l’effetto più forte che può avere Leu è contribuire alla sconfitta del Pd e del centrosinistra nei collegi uninominali, depotenziando la leadership di Matteo Renzi e facendo deflagrare la guerra nel Pd. Dal punto di vista della governabilità, Leu potrebbe essere nella partita sia per un governo di minoranza di M5S sia per un 'esecutivo del Presidente' (tecnico o politico).
QUELLI CHE SFIDANO IL 3%
Sebbene il Rosatellum imponga ai piccoli di accettare accordi elettorali con i 'giganti' (chi non è certo di superare la soglia di sbarramento del 3 per cento, infatti, deve garantirsi un minimo di rappresentatività attraverso patti nei collegi con i partiti maggiori), c’è anche chi proverà a fare corsa a sé e a misurarsi. Ci proverà il Popolo della famiglia di Mario Adinolfi, e ci proveranno anche, sulla sinistra estrema, la lista dei centri sociali 'Potere al popolo' e 'La mossa del cavallo' di Ingroia. Ardua la sfida per queste compagini: le 'pari grado' che si coalizzano, anche se non superassero il 3 per cento, porterebbero comunque fieno in cascina a condizione di superare un punto di consenso; chi corre da solo deve puntare al 3 o ogni voto loro attribuito sarebbe disperso.
GLI SCENARI POST-VOTO
A meno di un clamoroso salto in avanti di M5S o di una delle due coalizioni, la mattina del 5 marzo l’Italia si troverà con una maggioranza da costruire con pazienza certosina fuori dalle urne. Già il primo passaggio istituzionale, la nomina dei presidenti di Camera e Senato, potrebbe risultare problematico. Non è detto che un governo ci sia subito, non è detto che ci sia in assoluto, non è detto che non si voti di nuovo nel giro di qualche mese. La permanenza per gli 'affari correnti' di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi potrebbe durare più a lungo del previsto. E le prevedibili rese dei conti interne alle forze politiche sconfitte potrebbe aggravare e non facilitare lo 'stallo' post-voto.