Nel suo editoriale del 14 febbraio Marco Impagliazzo ci ha detto una cosa elementare che da sola dovrebbe spazzar via i fumi tossici delle dispute ideologiche: per parlare di cittadinanza basta guardarsi attorno quando si vanno a prendere i figli a scuola. Meditando sulla propria esperienza, ciascuno di noi trova immediata conferma a questa fulminante verità. La legge italiana sulla cittadinanza è del 1992. In quell’anno, andando a prendere mia figlia alle elementari, non incontravo genitori e bimbi dai tratti non italiani. Oggi, andando a prendere la mia nipotina all’asilo, incontro un tripudio di visi, di colori, di fogge di vestiti e copricapi di tutti i continenti. Tutti un po’ di corsa, a volte trafelati, ma tutti col sorriso che solo i bambini sanno trasmettere. Tutti uniti dalla lingua italiana.
Questo, oggi, il nostro Paese. Se potessimo spiegare ai nostri bambini di dieci anni che alcuni di loro sono italiani e molti altri no, nonostante siano nati qui e abbiano concluso un ciclo scolastico, nonostante che i loro genitori lavorino e paghino le tasse in Italia da sempre, i bambini non ci capirebbero. Perché quella legge del 1992 non è cambiata? Perché non fotografa la nuova realtà?
È sempre interessante riflettere sulla lenta dialettica con cui si intrecciano mutamento dei costumi e delle leggi. Le interferenze sono reciproche ma i tempi del cambiamento quasi mai coincidono. Quasi sempre le leggi e i codici registrano in ritardo l’evoluzione della realtà sociale e dei mores. Spesso siamo portati a sopravvalutare la forza propulsiva della legge scritta: la sua capacità di plasmare i costumi. In realtà quasi sempre sono questi a far da battistrada alle regole del diritto.
Pensiamo alla recente storia italiana. Era il 1966 quando la diciassettenne Franca Viola, rifiutando le nozze col giovane rampollo della famiglia mafiosa che l’aveva sequestrata, tenuta prigioniera e violentata per sette giorni, portò agli occhi dell’opinione pubblica la vergogna della norma sul matrimonio riparatore come causa estintiva del delitto di ratto a fine di matrimonio. Tutta l’Italia si indignò. Franca fu ricevuta in udienza da Paolo VI. E quando, due anni dopo, si sposò con l’uomo che amava, il presidente della Repubblica Saragat le inviò un dono di nozze. Ma quella norma rimase nel nostro Codice fino al 1981! Così come l’omicidio per causa d’onore, abrogato 19 anni dopo un film come Divorzio all’italiana di Pietro Germi.
In altri casi, assai più rari, ci son state leggi che, grazie all’impegno di settori culturali particolarmente sensibili e attivi, si son poste all’avanguardia di una più lenta mutazione della maggioranza profonda del Paese. Pensiamo alla legge Basaglia, del 1978, sulla chiusura dei manicomi, o alla riforma Gozzini dell’ordinamento penitenziario (del 1986). E comunque, che siano arrivate in anticipo o in ritardo, tutte queste riforme furono il risultato finale di battaglie intraprese, molti anni prima, da minoranze che, ispirate da valori profondi, seppero cogliere un mutamento delle coscienze in atto.
Per questo la battaglia sulla cittadinanza fondata sullo ius culturae nelle sue possibili declinazioni, portata avanti da Avvenire, è una battaglia che guarda al futuro.
Sarebbe bello se il Parlamento – smettendo di portare avanti, su questo tema, stanche battaglie con lo sguardo rivolto al passato – con un sussulto unitario fosse capace di chinare gli occhi sul presente. Su quei reparti di maternità di un ospedale di periferia in cui – come ci ricorda Marina Corradi – su dieci neonati solo tre sono italiani. E di comprendere che quei bambini sono uno dei pochi motivi di speranza in questa epoca di venti di guerra e di disumanità.
Sulla nuova cittadinanza già siamo in ritardo. Cerchiamo di non aggravarlo. Facciamo in modo che, tra qualche decennio, i nostri nipoti, studiando questo ritardo, non abbiano lo stesso stupore indignato che proviamo noi quando pensiamo che, trent’anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, nei nostri codici c’erano ancora vecchi relitti del passato come l’omicidio per causa d’onore.