Il procuratore generale di Cagliari, Luigi Patronaggio - IMAGOECONOMICA
«Scongiurare eventi drammatici ed estremi”. Con queste parole il procuratore generale di Cagliari, Luigi Patronaggio, ha lanciato l’allarme sulle condizioni dei detenuti in Italia. Un passato da magistrato antimafia, poi procuratore di Agrigento in prima linea nelle inchieste sul traffico di esseri umani, Patronaggio in questa intervista richiama non solo la politica e la magistratura alle proprie responsabilità.
Ogni estate si rinnova l’allarme per la situazione delle carceri, ma si tratta di una emergenza solo “di stagione”?
Assolutamente no! Le carceri italiane registrano criticità croniche che si acuiscono in estate quando gli spazi di detenzione ristretti diventano, per il caldo e per la mancanza di idonei servizi igienici, invivibili. Sono a conoscenza di istituti penitenziari dove è possibile fare la doccia una volta alla settimana o a turni prestabiliti. Ma la vera criticità delle carceri italiane è la mancanza di una efficace assistenza socio-psicologica che accompagni percorsi di riabilitazione e reintegrazione sociale.
Durante il Covid alcuni gravi episodi avevano riproposto il tema della detenzione e delle sue finalità. Cosa è cambiato da allora?
Il Covid ha evidenziato la fragilità dell'assistenza sanitaria nelle carceri dove ancora oggi, pur con delle eccezioni, la presenza costante in istituto di un medico nelle 24 ore non è un dato affatto scontato. Va inoltre registrata la presenza assolutamente episodica della componente medico psichiatrica. L’emergenza Covid evidenziò inoltre uno spinoso problema, tutto italiano, quello del doppio binario trattamentale, cioè del regime differenziato fra detenuti comuni e detenuti per gravi delitti di criminalità mafiosa o terroristica. Problema che ha tragicamente messo in luce come la ferita delle stragi mafiose degli anni ’90 non si è mai rimarginata e che non è mai avvenuta una pacificazione sociale con il reale superamento dell'emergenza mafiosa, con la spiacevole conseguenza di una non sempre giustificata disparità di trattamento fra detenuti, come sottolineato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo e dalla stessa Corte Costituzionale.
Spesso da magistrato si è trovato a occuparsi di persone che erano già passate dal carcere senza tuttavia “cambiare vita”. Così come è concepita, l’esecuzione della pena riesce a offrire percorsi di vita alternativa o è esso stesso un propellente per la recidività?
Il carcere è spesso un luogo che, per mancanza di progetti di vita realmente alternativi, diventa luogo esso stesso criminogeno. La mancanza di una occasione di qualificazione lavorativa, unitamente alla mancanza di una valida rete di sostegno socio-assistenziale, è forse il dato più allarmante della vita carceraria.
Nei giorni scorsi lei ha paventato il rischio di “eventi estremi e drammatici”. A cosa si riferiva?
Il numero allarmante dei suicidi in carcere in questi ultimi tempi deve far prendere atto della grande debolezza strutturale del sistema. Di fronte ad un uomo o a una donna che rifiutano la vita per disperazione non possiamo voltarci dall'altra parte. C'è una responsabilità politica e sociale, che investe in parte anche la magistratura, cui non possiamo sottrarci e che ci impone di agire.
Cosa manca al sistema penitenziario italiano per essere davvero “riabilitativo”?
Due sole parole: risorse economiche e risorse di personale. Occorrono educatori, assistenti sociali, psichiatri e psicologi. Occorre inoltre la creazione di un ponte di comunicazione e solidarietà fra chi sta dentro e noi tutti che stiamo fuori.
Ci sono reati per i quali il carcere potrebbe essere evitato o sostituito da altro genere di percorso?
Da questo punto di vista la riforma Cartabia, con l'ampliamento della possibilità di ricorrere alle cosiddette misure sostitutive, rappresenta un primo passo per una detenzione alternativa e più leggera. Quello che preoccupa è il numero elevatissimo di soggetti deboli presenti in carcere: extracomunitari, tossicodipendenti, emarginati, nuovi poveri, soggetti con problemi psicologici e talvolta anche con problemi psichiatrici. Questi soggetti oggi non hanno una concreta e reale possibilità di reinserimento, situazione questa che impone a tutti noi , cioè alla cosiddetta comunità dei liberi, dei regolari e dei sani, ad assumerci le nostre responsabilità non più procrastinabili.