sabato 2 dicembre 2023
Dai nuovissimi radiofarmaci alle cure con Car-T, fino alla protonterapia: per gli oncologi serve investire nella formazione di team multidisciplinari da distribuire in tutto il territorio
Contro il cancro terapie al top solo in 30 ospedali. Gli oncologi: fare rete

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Dei 1.000 ospedali italiani, pubblici e privati, solo 30 (8 dei quali in Lombardia), erogano la terapia con radioligandi, l’ultima novità della medicina nucleare contro il cancro: si tratta di radiofarmaci che rilasciano radiazioni direttamente nelle cellule neoplastiche ovunque siano presenti, agendo quindi in modo altamente specifico e con estrema precisione.

E soltanto 35 ospedali del nostro Paese mettono a disposizione dei pazienti affetti da alcuni tumori del sangue, la terapia con Car-T, una innovativa procedura, in continuo perfezionamento, che “reingegnerizza” una parte delle cellule del sangue prelevate ai pazienti, istruendo i linfociti T ad attaccare e a distruggere quelle maligne.

E se un paziente necessita di sedute di protonterapia, che tratta sia i tumori sviluppati in organi critici o in sedi difficili da raggiungere, sia un crescente numero di neoplasie orfane di cura e che non rispondono alla radioterapia convenzionale, dovrà mettersi in fila per essere accettato nei tre centri italiani che la erogano: l’Ieo a Milano, il Centro nazionale di Adroterapia oncologica di Pavia e il Centro di protonterapia di Trento. Nel laboratorio dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) di Catania, si curano invece i melanomi oculari. Questi trattamenti sono il presente e il futuro della lotta al cancro, e sono destinati a gruppi di pazienti in rapida crescita. Richiedendo una specializzazione elevata, team multidisciplinari, oltre a tecnologie e laboratori d’avanguardia e molto costosi (i centri di protonterapia nel mondo sono un centinaio), non si può certo pensare di trovarli in ciascuna delle 1.000 case di cura sparse per il Paese. D’altra parte, non è neanche concepibile che il paziente oncologico gestito in nosocomi “periferici” e che non riesce a raggiungere i reparti di eccellenza degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e dei più prestigiosi ospedali universitari del Paese, siano destinati a campare di meno e peggio degli altri. Dunque, si pone un problema di accessibilità a queste terapie. A sentire l’Aiom (Associazione italiana oncologia medica), serve prima di tutto investire in équipe di specialisti adeguatamente formati, geograficamente ben distribuiti, che garantiscano ai pazienti il corretto e più aggiornato percorso di cura, che potrà poi svolgersi nei centri altamente specializzati.

Le nuove terapie, come quella con radioligandi, afferma Maria Luisa De Rimini, presidente dell’Associazione italiana di medicina nucleare, «nei loro molteplici aspetti di gestione», necessitano però anche «di un indispensabile adeguamento infrastrutturale, essenziale perché possa esserne garantita l’erogazione e perché queste strategie terapeutiche diventino opportunità di cura accessibile in modo uniforme sul territorio». Ottimizzarne l’impiego, «assicurerebbe equità di accesso in tutte le regioni». Impossibile avere tutto in ogni ospedale. Ma, aggiunge De Rimini, si può e si deve almeno «superare la disomogeneità di distribuzione geografica aumentando il numero di strutture» in grado di offrire le nuove terapie. Perché l’obiettivo è «eliminare il fenomeno della migrazione sanitaria che spesso costringe pazienti e loro familiari a disagi da lunghi viaggi».

Fondamentali, così come raccomanda il Piano oncologico nazionale, sono i gruppi multidisciplinari. Per molti tumori, oltre ad oncologi ed ematologi, serve una condivisione del piano terapeutico che comprenda anche figure molto diverse: dal medico nucleare all’endocrinologo, dal patologo allo specialista di fisica medica, al radiologo.

Se è vero che per un cambio di passo bisogna investire in tecnologie e formazione, è altrettanto vero che i soldi impiegati sarebbero non solo ben spesi ma anche destinati a tornare indietro con gli interessi. Perché il ricorso sempre più frequente alla personalizzazione delle cure è garanzia di maggiore efficacia e, di conseguenza, come rileva l’Aiom, di una consistente riduzione dei costi di ospedalizzazione. Per la terapia con radioligandi, per esempio, servono uno, massimo due giorni in reparto ogni sei-otto settimane, per un totale di 4 cicli. A tutto vantaggio del nostro traballante bilancio sanitario. «Anche le più recenti linee guida Aiom-ItaNet – sottolinea il presidente eletto Aiom, Massimo Di Maio, docente di Oncologia all’Università di Torino, e direttore dell'Oncologia medica all'Ospedale Mauriziano del capoluogo piemontese – sanciscono l’importanza della condivisione delle scelte terapeutiche e la necessità di inserire il paziente in un percorso integrato e dedicato, gestito». Per restare alla terapia con radioligandi, confinata al momento in pochi istituti, «è importante che i team multidisciplinari dei centri periferici siano messi in condizione di lavorare quanto più possibile a stretto contatto con l’expertise centrale delle strutture in grado di prendere in carico i pazienti».

Non proprio una formalità, stando a quanto denuncia il Cipomo (Collegio dei primari oncologi medici ospedalieri) per il quale le strutture di oncologia medica italiane, «soffrono negli aspetti organizzativi interni e nella gestione del percorso del paziente dall’ospedale al territorio». Non solo: meno della metà di queste unità (circa il 40%), ha una connessione strutturata con i dipartimenti di prevenzione primaria e secondaria e con centri screening; una cartella informatizzata manca nel 66% delle strutture, ed è condivisa con il territorio solo nell’8% dei casi. Come dire: in tanti ospedali le terapie top possono attendere.

Le armi più potenti contro i tumori: il ruolo dei vaccini

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Immunoterapia, vaccini, radiofarmaci, protonterapia. Il cancro ha nuovi, potenti, nemici. Alcuni già disponibili. Altri che lo saranno presto. L’Istituto nazionale tumori “Pascale” di Napoli ha appena annunciato il via libera in Italia ai test di fase 3 sul vaccino a mRna contro il melanoma. Il Pascale è il primo centro a partire nel nostro Paese con l'ultimo step di sperimentazione clinica, e tra i primi al mondo. L'avvio poche settimane fa, con l'arruolamento di pazienti con diagnosi di melanoma radicalmente operato. «Il vaccino si basa sulla stessa tecnologia adottata per quelli contro il Covid – spiega il direttore del dipartimento di Oncologia, melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative del Pascale, Paolo Ascierto –. Sono prodotti che utilizzano mRna sintetici progettati per “istruire” il sistema immunitario a riconoscere specifiche proteine, chiamate “neoantigeni”, che sono espressione di mutazioni genetiche avvenute nelle cellule malate». I dati, a 2 anni dalla somministrazione del vaccino, mostrano una riduzione del rischio di recidiva o morte del 44% in chi lo ha ricevuto in combinazione con il farmaco immunoterapico pembrolizumab. «Ci vorrà qualche anno prima di avere i risultati di quest'ultima fase clinica – puntualizza Ascierto –. La nostra speranza è di poter dare una nuova e più efficace opzione terapeutica a quanti più pazienti possibili».

Sono invece impiegate contro tumori del sangue, linfomi aggressivi o leucemie linfoblastiche, in pazienti che hanno subito anche molteplici ricadute, le terapie con Car-T, che rappresentano una possibilità concreta di controllo della malattia, con un importante aumento della sopravvivenza, e con percentuali di guarigione che possono superare il 40% dei casi. All’inizio dell’autunno erano già sei i farmaci che utilizzano Car-T approvati. Mentre non è certo un caso se in tutto il mondo si contano 1.400 studi clinici registrati che si occupano di questa procedura.

La protonterapia, inserita nei Lea (Livelli essenziali di assistenza) sei anni fa, utilizza protoni e ioni carbonio, particelle atomiche che hanno il vantaggio di essere più pesanti e dotate di maggior energia rispetto agli elettroni (utilizzati dalla radioterapia) e di conseguenza di essere ancora più efficaci nel distruggere le cellule tumorali. Il ministero della Salute ha individuato 10 patologie oncologiche per le quali è considerata appropriata. Dal primo gennaio 2024 questa procedura, che presenta minori rischi di malattie indotte dai raggi e meno tossicità durante e dopo il trattamento, entrerà tra le prestazioni erogabili dal Sistema sanitario nazionale per i cittadini.

La rivoluzione dei radioligandi

Ma una delle novità che riscuote interesse in tutto il mondo nella lotta al cancro è rappresentata dai radioligandi, ovvero dei radiofarmaci. La nuova frontiera aperta da questo trattamento sta nel fatto che diagnosi e cura fanno parte dello stesso percorso perché utilizzano la medesima molecola. «Nessuna altra strategia – spiega il presidente della Fondazione Aiom, Saverio Cinieri – è in grado di delineare con altrettanta accuratezza e predittività se, quanto e come si potrà colpire il target tumorale ancor prima di iniziare la terapia». Oggi i radioligandi sono utilizzati per i tumori neuroendocrini (definiti “Net”), le cui cellule sono presenti in tutto l’organismo e che dunque possono colpire organi molto diversi tra loro come intestino, pancreas, polmoni, tiroide, timo o ghiandole surrenali. Sono tumori che si presentano il più delle volte già in fase metastatica. In questo tipo di malattie, i radioligandi hanno già dimostrato di migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti, anche nei casi molto compromessi. Ma i ricercatori considerano questa terapia, da poco approvata dagli enti regolatori statunitense (Fda) ed europeo (Ema), potenzialmente in grado di arrecare enormi vantaggi anche su altri tumori. «Partendo dall’esperienza dei Net – dice Marcello Tucci, primario oncologo dell’Ospedale “Cardinal Massaia” di Asti –, numerosi studi internazionali hanno valutato il potenziale dei radioligandi in fase diagnostica e terapeutica in diverse neoplasie, come il cancro della mammella, del pancreas, del polmone, della prostata, nel melanoma, nel linfoma e nel mieloma multiplo». Non solo: «Grazie ai radioligandi, il tumore della prostata sta vivendo il suo ingresso in una nuova “era” di terapie nel segno della medicina di precisione».

Per via di questi sviluppi, si moltiplicano gli studi sui radiofarmaci sperimentali. L’Italia, anche grazie ai fondi erogati dall’Airc, è in prima linea nella ricerca. Tra gli ospedali al centro di questo fermento scientifico, c’è il Policlinico Gemelli di Roma che ha avviato una serie di progetti per diverse patologie: da quelle neuro-psichiatriche al diabete, ai linfomi, alle neoplasie ginecologiche, gastroenteriche, fino alle malattie infiammatorie croniche, che vedranno le prime applicazioni sperimentali sui pazienti nel 2024. Né restano immuni, da questa nuova frontiera della medicina, le grandi aziende farmaceutiche, convinte più che mai del potenziale terapeutico dei radiofarmaci. Non si spiegherebbe altrimenti l’investimento da 104 milioni di euro, annunciato poche settimane fa dal colosso svizzero Novartis, per il polo dell’innovazione oncologica di Ivrea, in Piemonte, dove si produrranno i radioligandi del futuro.

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