La doppia copertina scelta da National Geographic per presentare il dossier sulla disforia di genere in età pediatrica
Disturbi della differenziazione sessuale. Così i pediatri definiscono i bambini nati con gli organi genitali non pienamente sviluppati o con gravi difetti nello sviluppo anatomico. Talvolta la situazione è così complessa da rendere difficile comprendere il sesso del bambino. I disturbi della differenziazione sessuale colpiscono un neonato su cinquemila. Si tratta di una patologia complessa che richiede analisi cromosomiche e ormonali accurate prima di mettere a punto terapie adeguate. Altrettanto preoccupanti sono, sempre in età pediatrica, i disturbi dell’identità di genere. Una sindrome molto meno studiata, dalle cause incerte – si oscilla tra teorie biologiche e teorie psicosociali – che induce i bambini a sentirsi a disagio con il proprio sesso biologico. Colpisce il 2–3% dei piccoli al di sotto dei sei anni e – secondo gli esperti – si risolve nell’80% dei casi al momento della pubertà. Sia i disturbi della differenziazione sessuale, sia quelli dell’identità di genere sono problemi molto seri, che interrogano medici e genitori perché, come si può facilmente intuire, riguardano la sfera più intima della persona e coinvolgono questioni etiche, morali e giuridiche.
Qualche giorno fa, in un convegno organizzato dal Centro Interfacoltà sugli studi di genere dell’Università San Raffaele, Gianni Russo, endocrinologo pediatrico che da anni studia questi problemi, ha parlato di “malattie rare”. Definizione che non ha alcun intento dispregiativo, ma che è importante per inquadrare seriamente l’ambito medico- scientifico in cui vanno studiate e curate queste patologie. In questo caso, visto che sono coinvolti i bambini, rispetto e delicatezza andrebbero moltiplicati. Magari anche con una dose aggiuntiva di riservatezza.
Tutte attenzioni dimenticate dal National Geographic, la famosa rivista scientifica americana, tradotta in 31 lingue, che nel numero di gennaio lancia la “Gender revolution”. Questo il titolo di copertina del periodico, già disponibile da un paio di giorni on line che – secondo quanto riferisce lo stesso editore – vanta cinquanta milioni di lettori nel mondo. La foto ritrae Avery Jackson, bambina di nove anni che da cinque, come racconta lei stessa nel corposo dossier, è diventata “transgender”. E si dice molto contenta di essere diventata una bambina e di non essere più obbligata a «sembrare un ragazzo », con tutta la sofferenza che per lei questa condizione implicava. Avery vive in Kansas e, nonostante la giovane età, è stata trasformata in una testimonial dei diritti transgender. In un’intervista pubblicata da un’altra rivista specializzata ha raccontato di «essere fiera e felice di essere transgender. Non sono un mostro. Non faccio paura. Voglio essere trattata come qualsiasi altro essere umano». Richiesta più che legittima, arrivando soprattutto da una bambina di nove anni. Peccato che altri esseri umani, adulti e consapevoli (forse non troppo) stiano usando la sua vicenda difficile e sofferta, come lei stessa ammette, per veicolare messaggi carichi di ambiguità e di ideologia. Il dossier del National mette in fila le storie di 80 bambini di varie parti del mondo, la maggior parte di età inferiore ai 10 anni, per raccontare la necessità di un nuovo approccio alle questioni di genere. «Vogliamo dare uno sguardo al ruolo tradizionale del genere – spiega in un lungo editoriale Susan Goldberg, capo redattrice della rivista – ma vogliamo allo stesso modo guardare al genere come a un fantasma. Parliamo anche della comprensione crescente nei confronti delle persone che vivono questioni di genere».
Obiettivo condivisibile, ma per mostrare comprensione è necessario pubblicare decine di foto senza censura di bambini afflitti da problemi di differenziazione sessuale? Le immagini, bellissime e drammatiche, sono una sorta di giro del mondo dell’infanzia transgender. Bambini della Repubblica dominicana, di Samoa, del Canada, di Tonga, del Messico, della Nigeria. E, naturalmente, tanti piccoli statunitensi, tutti alle prese con varie patologie di genere. Nei testi che accompagnano le immagini si fa notare che il numero di questi bambini è sensibilmente aumentato negli ultimi anni. Perché sarebbero sempre più numerose – ma non ci sono dati scientifici su questo incremento – le persone che «non hanno un genere convenzionale ». E fino a pochi anni fa «non avevano neppure un nome». Oggi invece il lessico transgender si è straordinariamente arricchito. «Si può parlare di transgender, cisgender, gender non conforming, genderqueer, a–gender e – spiega National Geographic – di tutti gli altri 50 generi che Facebook permette ai suoi utenti di selezionare». Passaggio che – nella sua banalità – svela tutto il carico propagandistico dell’operazione. Buttare in pagina i casi clinici di bambini affetti da patologie anatomico- funzionali e da complesse implicazioni psicologiche per affermare una presunta svolta antropologica. «Liberata dalla “binarietà” maschile e femminile – si legge ancora – l’identità di genere sta modificando gli scenari. La scienza ci può aiutare a comprenderlo?». Certo, ma solo se saremo in grado di distinguere questioni medico-scientifiche da obiettivi di propaganda gender. Cioè proprio quello che National Geographic non ha fatto. O, probabilmente, non ha voluto fare.