Una nave commerciale italiana, Asso 28, ha soccorso 108 migranti e li ha riportati in Libia. Non era mai successo ed è possibile che sia stata una violazione del diritto internazionale. Poiché nessuno dei migranti riportati a Tripoli ha avuto la possibilità di chiedere asilo come garantito dalla legge.
Su Twitter intanto l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha ribadito che la Libia non è un porto sicuro. "Stiamo raccogliendo tutte le informazioni necessarie sul caso del rimorchiatore italiano #AssoVentotto che avrebbe riportato in #Libia 108 persone soccorse nel Mediterraneo. La Libia non è un porto sicuro e questo atto potrebbe comportare una violazione del diritto internazionale".
Secondo le prime ricostruzioni – quelle su Repubblica di Alessandra Ziniti e su Twitter del presidente della ong spagnola Proactiva Open Arms, Oscar Camps, tra gli altri – i migranti sarebbero stati soccorsi in acque internazionali.
Le autorità italiane non hanno ancora confermato tutti gli elementi della vicenda.
Per prima la Guardia costiera italiana ha fatto sapere che le attività di soccorso di Asso 28, nave italiana che opera per conto dell'Eni che ha nella zona alcune piattaforme, si sono svolte sotto il coordinamento della Guardia costiera libica.
Lo ha ribadito anche il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli: "L'unica cosa che posso dire è che la Guardia costiera italiana non è stata interessata al coordinamento e al salvataggio, perciò non ci ha fornito alcuna indicazione. Quindi il diritto internazionale non è stato violato".
Come ricostruisce anche il Post, invece che essere portati in Italia o in un altro “porto sicuro”, come stabiliscono diverse norme internazionali, la Asso 28 ha riportato i migranti a Tripoli, in Libia, in questo modo violando le norme del diritto internazionale. È la prima volta che accade un episodio del genere ed è considerato molto grave da diversi osservatori, perché minerebbe alle fondamenta il diritto d’asilo.
Non ci sono ancora conferme ufficiali su come sia stata presa la decisione di riportare in Libia i 108 migranti soccorsi: una delle possibilità è che il comandante della Asso 28 potrebbe avere deciso di contattare direttamente i libici e tagliare fuori il passaggio del coordinamento del MRCC italiano, come sembra suggerire anche un post pubblicato su Facebook dal ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, che ha smentito che la Guardia costiera italiana abbia partecipato al coordinamento dei soccorsi.
«Non voglio fare polemica con Toninelli, ma sono partite molte meno navi e ci sono stati molti più morti nel Mediterraneo in questo ultimo mese. Il che significa che, nonostante la nostra Guardia costiera sia sempre all'altezza del suo compito, i libici vengono lasciati da soli». Lo ha detto il capogruppo del Pd alla Camera, Graziano Delrio. «Quanto questo sia efficace per i salvataggi e per il rispetto del diritto del mare - ha proseguito - sinceramente mi pare difficile da sostenere, perchè in questo momento non sono in grado di eseguire i soccorsi con tempestività e professionalità come si richiederebbe in queste situazioni. Non vedere l'aumento delle morti in mare - ha concluso - è girare la testa dall'altra parte. La Libia non ha porti sicuri».
Il deputato di LeU Nicola Fratoianni ha denunciato invece che l'ordine ad Asso 28 di riportare a Tripoli i migranti soccorsi a bordo di un gommone sarebbe "arrivato dalla piattaforma per cui lavora il rimorchiatore, vale a dire dall'Eni". E le autorità italiane erano informate fin dall'inizio dell'intera operazione di soccorso in quanto "la prima segnalazione di un gommone in difficoltà era partita proprio dal Imrcc di Roma".
È arrivata dal Marine Department di Sabratah la richiesta "di procedere in direzione di un gommone avvistato a circa 1,5 miglia sud est dalla piattaforma". Così la società Augusta Offshore di Napoli, armatrice dell'Asso Ventotto, sull'intervento di soccorso dell'Asso 28. L'azienda conferma che "le attività di soccorso si sono svolte sotto il coordinamento della Coast Guard libica" che il rimorchiatore Asso 28 - che si trovava in assistenza alla piattaforma di estrazione 'Sabratah' della Mellita Oli & Gas (Joint Venture tra Eni e Noc libica), a 57 miglia marine da Tripoli, 105 miglia da Lampedusa - si è diretto ieri verso un gommone in difficoltà avvistato a circa 1,5 miglia dalla piattaforma, "dopo aver imbarcato rappresentanti dell'Authority libica sulla piattaforma stessa".
L'Eni in comunicato però "smentisce categoricamente qualsiasi coinvolgimento nella vicenda che è stata interamente gestita dalla Guardia costiera libica... che ha imposto al comandante dell'Asso 28 di riportare i migranti in Libia. Durante il trasferimento verso Tripoli a bordo del vessel era presente anche un rappresentante della guardia costiera libica".
I punti critici dell'operazione di Asso 28
Secondo le prime ricostruzioni è stato il Centro di coordinamento di Roma a dare indicazione al capitano della nave di coordinarsi con la Guardia costiera libica, che ha poi indicato come porto di sbarco Tripoli. La notizia riportata dai media italiani sta già facendo discutere: è la prima volta infatti che una nave italiana riporta indietro in Libia migranti soccorsi nel Mediterraneo. Un fatto senza precedenti, che secondo diversi giuristi, viola la legislazione internazionale e si configura come respingimento collettivo, paragonabile al caso Hirsi del 2009 per il quale l'Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
Fulvio Vassallo Paleologo, dell'Adif -Associazione Diritti e Frontiere: giurista dell'Università di Palermo ed esperto di diritto internazionale e di diritti dei migranti, intervistato da "Redattore Sociale" afferma: «Quanto accaduto con la Asso 28 è frutto dell'attuazione degli accordi con la Libia dello scorso anno e rafforzati quest'anno, che hanno portato alla creazione di una zona sar libica: una volta ritenuta tale consente alla Guardia costiera libica di coordinare i soccorsi e di far dire alla Guardia costiera italiana che non ha alcun ruolo di coordinamento, come Salvini sta ripetendo da stamattina. Tutto questo serve solo a legittimare azioni di respingimento collettivo».
Per Vassallo ci sono evidenti assonanze con il caso Hirsi : «anche se - aggiunge - oggi ho forti dubbi che con questo clima politico la Corte europea possa avere indipendenza di giudizio per confermare la giurisprudenza Hirsi». In ogni caso per il giurista, anche se a coordinare l'operazione è stata la Guardia costiera libica, la responsabilità italiana è innegabile. «Ci sono documenti su documenti che confermano come la Guardia costiera libica operi in stretto coordinamento con la Marina militare italiana, che a Tripoli ha sua unità navale - spiega - Quindi da un punto di vista formale il coordinamento è stato affidato ai libici in violazione dei trattati internazionali ma sul piano fattuale nessuno potrà negare che la Marina militare italiana ha collaborato con il coinvolgimento italiano». Secondo Vassallo «l'istituzione della zona Sar libica, autoproclamata dal governo di Tripoli, che alla fine di giugno l'ha notificata all'Imo (International maritime organization) , è lo strumento essenziale per camuffare i respingimenti collettivi delegati alla guardia costiera libica, che libica non è».
Nel caso specifico, «i tracciati evidenziano chiaramente che i soccorsi operati dal rimorchiatore italiano Asso 28 si sono verificati in una zona molto prossima alle piattaforme petrolifere del bacino di Bouri Field/Sabratha, una zona che è strettamente presidiata dalla Marina militare italiana, anche per garantire la sicurezza dei lavoratori delle piattaforme e dei mezzi di servizio - scrive su Adif diritti e frontiere -. Di fatto l'ultima meta raggiungibile partendo con i gommoni dalle coste libiche, dopo che quasi tutte le ong sono state allontanate. Persone oggi abbandonate al loro destino, in mare, o nei campi di detenzione in Libia, dove sembra raddoppiata in questi ultimi mesi la presenza dei migranti che per i libici sono soltanto »illegali«, donne in gravidanza e minori compresi».
Sulla stessa scia anche Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi (Associazione studi giuridici sull'immigrazione). « Non vedo come non si possa parlare di responsabilità italiana: la nave batte bandiera italiana e ha agito in acque internazionali sotto la giurisdizione italiana - afferma -. Pare evidente, infatti, che sia stato l'Mrcc di Roma a dare indicazione al capitano della nave di chiamare la Guardia costiera libica. Se così non fosse il centro di coordinamento di Roma deve chiarirlo ufficialmente.
Altrimenti la responsabilità italiana resta evidente al 100 per cento, perché l'operazione coordinata da Roma ha declinato la responsabilità a favore dei libici e quindi l'Italia è responsabile delle violazioni commesse. È, infatti difficile pensare che il capitano della nave abbia agito in base a una sua libera iniziativa». L'Italia rischia quindi, a distanza di nove anni un nuovo ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo e una nuova condanna. «Il caso è praticamente identico al caso Hirsi: abbiamo un respingimento collettivo, vietato dal quarto protocollo della Cedu. C'è poi la violazione dell'articolo 3 della Convenzione di Ginevra che parla di divieto di tortura: il respingimento è avvenuto in una Libia persino peggiore di quella del 2009. E, infine, c'è il mancato accesso alla procedura d'asilo per le persone soccorse. Abbiamo cioè tutti le violazioni già presenti nel caso Hirsi».
Più cauta, invece, la posizione del ricercatore dell'Ispi Matteo Villa secondo il quale la responsabilità è in capo al capitano della nave Asso 28 nel caso «abbia contattato direttamente Tripoli e poi abbia deciso di riportare le persone in Libia». Nel caso, invece, di un contatto iniziale con l'Mrcc di Roma «non è perfettamente semplice e diretto chiarire se la responsabilità possa estendersi all'Italia» scrive. Di certo per Villa esiste «una zona grigia (e paradossale) creata da due posizioni opposte e contrarie: il fatto che da fine giugno esista un centro di coordinamento dei salvataggi a Tripoli, e quello che secondo sentenze italiane e straniere la Libia non può essere considerata luogo sicuro in cui ricondurre i salvati. Dunque formalmente Tripoli può coordinare i salvataggi, ma le imbarcazioni sotto il coordinamento di Tripoli e non battenti bandiera libica non posso sbarcare i salvati in Libia». Una situazione che di fatto crea un'ampia incertezza anche dal punto di vista giuridico.