martedì 28 maggio 2024
Sono passati 50 anni dall'attentato di matrice neofascista. Il ricordo Manlio Milani, presidente dell’Associazione Familiari dei Caduti. La celebrazione con Mattarella
«Brescia, la risposta democratica alla strage di Piazza della Loggia»

ANSA

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Brescia non dimentica. Sono passati cinquant’anni dalla strage di piazza della Loggia, l’attentato di matrice neofascista che il 28 maggio 1974 uccise 8 persone e ne ferì 102. Sono passati cinquant’anni dallo scoppio della bomba, nascosta in un cestino portarifiuti per colpire i partecipanti alla manifestazione indetta dal Comitato antifascista e dai sindacati contro la violenza e il terrorismo neofascista che aggredivano anche Brescia. La Leonessa d’Italia non dimentica. E accogliendo oggi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è come se accogliesse il Paese intero per rilanciare la sfida di difendere e rigenerare le ragioni della democrazia, della libertà, della dignità umana, che la violenza, il terrorismo e le “zone d’ombra” delle istituzioni e della politica – come quelle che contrassegnarono gli anni di piombo e della “strategia della tensione” e che oscurarono anche la ricerca della verità sulla strage di piazza della Loggia – non cessano di minacciare.

Memoria pubblica

«Celebrare questo avvenimento cinquant’anni dopo è estremamente importante, e non sarà un esercizio di retorica, se sapremo riscoprire le ragioni di chi andò in piazza allora, e come alla violenza del terrorismo Brescia seppe reagire senza altra violenza ma restando nella democrazia, e come iniziammo un cammino per interrogarci sulle radici della violenza, e costruire una memoria pubblica che sa accogliere le vittime di ogni violenza e di ogni terrorismo, ascoltare le loro ragioni e le loro storie, lette sempre nella luce dei valori della Costituzione. Perciò è bello che ci sia il presidente Mattarella che con la sua storia, la sua personalità e sensibilità, sa testimoniare e trasmettere credibilmente i valori della Costituzione», afferma Manlio Milani, presidente dell’Associazione “Familiari dei Caduti della strage di piazza della Loggia” e della Casa della Memoria di Brescia, che era in piazza, cinquant’anni fa, e nell’attentato perse la moglie, Livia Bottardi, 32 anni, insegnante di lettere alle medie.

Messaggio ai giovani

«Tutto questo – riprende Milani – è una lezione preziosa per il nostro tempo. Che non conosce la violenza politica degli anni Settanta ma vede lo spazio pubblico e politico abitati dal linguaggio della contrapposizione e dell’odio, della costruzione di identità conflittuali ed esclusive, dall’uso strumentale della memoria storica – fino a ricordare i “propri” morti e solo quelli, ignorando gli altri. Disconoscere l’altro, escluderlo, negarne l’umanità, ecco la radice della violenza. Che dobbiamo combattere. E ai giovani d’oggi dico: fate bene a ribellarvi a ingiustizie ed emarginazioni, ma restate sempre nella legalità e nella non violenza».

Risposta di democrazia

Milani riavvolge il nastro della memoria. Brescia e l’Italia del 1974. Tempo segnato da conflitti e lacerazioni: nella politica, nelle istituzioni, nella cultura, nella società. «Come portò alla luce il referendum sul divorzio, che aveva rilanciato il tema del pluralismo e della laicità dello Stato». Ci fu chi “abitò” quel pluralismo conflittuale nel segno del confronto democratico. E chi invece scelse l’intolleranza e la violenza. «Come il neofascismo, che a Brescia aveva già colpito. Il 28 maggio 1974 il Comitato antifascista unitario – al quale aderivano i sindacati, associazioni come le Acli e tutti i partiti tranne il Msi – chiamò i cittadini in piazza per dire: ora tocca a voi. Tocca a tutti contrastare la violenza con la partecipazione democratica. Fu quella risposta di democrazia che l’eversione neofascista volle colpire. E la risposta della comunità bresciana, dalla città ai paesi, dalle fabbriche alle scuole, fu ancora di più una risposta di democrazia, di recupero dei valori costituzionali, di non violenza, di rigetto della “strategia della tensione”: come dimostra il fatto che a Brescia, città di lotte operaie, pur ferita dalla violenza nera, le Br e il terrorismo rosso non attecchirono».

Per tutte le vittime

Fra gravi depistaggi e ritardi, la verità giudiziaria ha dato un nome, via via, a mandanti, esecutori e matrice politica della strage. Ed è indispensabile, per la credibilità della democrazia. Ma Brescia volle andare oltre. «Ci chiedemmo: vogliamo restare per sempre “vittime” o trovare la strada per tornare cittadini? Perciò abbiamo cercato di avviare processi culturali per andare alla radice di questa strage e della violenza politica, e per custodire e rilanciare le ragioni della convivenza civile in questa Brescia plurale, dove le forze della sinistra e la straordinaria esperienza del cattolicesimo sociale hanno saputo dialogare e camminare insieme. Così, con parte della sottoscrizione a favore dei caduti della strage – caduti, non vittime: erano in piazza per scelta – si decise di avviare il centro bresciano dell’antifascismo.

Quell’esperienza, come quella dell’Associazione dei Familiari dei Caduti, sono alla sorgente – con la partecipazione delle istituzioni democratiche – della Casa della Memoria, che non solo raccoglie materiali e documentazione, ma è luogo d’incontro, studio, rigenerazione della memoria, cammino con le scuole e i giovani», spiega Milani. Con questo respiro si è dato vita al Memoriale «che collega la stele per i caduti di piazza Loggia con piazza Tito Speri – luogo dell’ultima barricata delle Dieci Giornate del 1849 – e col Castello – dove vennero torturati e uccisi i partigiani – grazie a 441 formelle, sull’esempio delle “pietre d’inciampo”, ognuna dedicata a una vittima del terrorismo e della violenza politica in Italia. Le vittime ci sono tutte, senza esclusioni. E ci sono formelle per le vittime di altre stragi, da Portella della Ginestra alle Torri Gemelle». La questione di fondo, riflette Milani: «non si tratta di fabbricare una “memoria condivisa” – quale memoria possono condividere un partigiano e un repubblichino? – ma di costruire una memoria pubblica che riconosce la dignità di ogni persona, che comprende e dà ascolto e fa conoscere le memorie e le storie di tutti – del partigiano come del repubblichino – sempre nella luce dei valori della nostra Costituzione. Che non va superficialmente esaltata, ma interiorizzata».

Dialogare con i “neri”

Il cammino di questi cinquant’anni ha cambiato in profondità Manlio Milani. Con percorsi ed esiti inattesi. «Nel 2009, accogliendo l’invito di padre Guido Bertagna, di Adolfo Ceretti e di altri, partecipai – nell’alveo dei percorsi di giustizia riparativa – a esperienze d’incontro tra familiari di vittime e esponenti della lotta armata di sinistra. Andai col timore di trovarmi davanti dei mostri. Scoprii invece che anche chi ha ucciso è e resta una persona». E poi: «io mi sono iscritto al Pci nel 1959. Con quei terroristi condivido la matrice politica e culturale comunista. Ma loro hanno scelto la via della lotta armata, io no. Perché? A “salvarmi” sono stati il lavoro e la militanza sindacale nella Cgil, palestra decisiva per educare al dialogo con chi ha visioni, idee e proposte differenti. Ma ho capito pure un’altra cosa, ancora più decisiva – scandisce Milani –. Anch’io, vittima di quella violenza, ho avuto una responsabilità in quegli anni: quando andavo in piazza e gridavo slogan come “basco nero il tuo posto è al cimitero” contribuivo anch’io ad alimentare il linguaggio e la cultura del nemico, della contrapposizione violenta, dell’intolleranza, dell’odio, del rifiuto dell’altro, in contraddizione con i valori e lo spirito della Costituzione.

Oggi sto cercando di allacciare un dialogo con ex terroristi neofascisti: è molto difficile, spero di non dover abbandonare questi tentativi. Ho già avuto, invece, occasioni di confronto con Casa Pound, sempre con l’obiettivo di promuovere una memoria pubblica. All’indomani della strage, con parole che vennero contestate, il vescovo di Brescia Luigi Morstabilini parlò dello spirito e della “mano di Caino” all’origine di quella e di ogni altra violenza. Quelle parole – riconosce Milani – mi sono rimaste dentro, mi hanno “lavorato”, aprendomi alla riflessione e all’esperienza della giustizia riparativa. Oggi, con serenità, posso dire che dietro ogni violenza c’è una domanda, un problema, alla radice un essere umano. Con cui ricostruire relazioni e riconoscimento, perché la violenza non abbia l’ultima parola».

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