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«Tutti sapevano che a bordo c’era l’amianto. Solo noi lo abbiamo scoperto nel 1992, quando ormai era tardi». È rabbia quella di Antonio Costagliola, 80 anni, procidano, marinaio dal 1960 al 1999, che ha visto morire – a carriera finita – i suoi colleghi di una vita. Lavoravano con lui su navi di compagnie americane e italiane, al largo delle coste campane, ignari di respirare e ingerire ogni giorno letali fibre di asbesto. «L’amianto era dappertutto – ricorda Costagliola –. Lo respiravi nelle caldaie o ogni volta che dovevi smontare un tubo. Quando lasciavo la frutta sulla scrivania, la ritrovavo sporca di polvere. Anche quella era amianto». Placche della pleura e tac a cadenza annuale sono il prezzo, per lui, dell’esposizione alla fibra. Ma a moltissimi marittimi in tutta Italia è andata peggio: secondo il VII rapporto Renam (Registro nazionale dei mesoteliomi) del 2024, dal 1993 al 2018 ben 788 lavoratori nell’industria del trasporto e della movimentazione delle merci in mare hanno sviluppato un mesotelioma, la letale malattia “sentinella” dell’amianto. Sono perlopiù motoristi navali, macchinisti, facchini e scaricatori di porto. Che ogni giorno per decenni sono entrati in contatto con l’amianto d’importazione, quasi tutto transitato attraverso i porti. Almeno fino al 1992, quando la legge 257 vietò l’estrazione, l’importazione, l’esportazione e la commercializzazione dei prodotti di amianto.
Eppure, in mare si corrono ancora molti rischi. «Il pericolo più grande per le navi sono gli incendi – spiega Nicola Carabellese, presidente Apin (Asbestos personal injury network) – e l’amianto, fino al 1992, è stato usato per evitarli. Ciononostante, le navi che ci portano dalle isole di Procida e Ischia a Napoli lo hanno ancora a bordo». E, come queste, molte altre imbarcazioni che dal 1992 sono state sottoposte alla bonifica obbligatoria, attraverso l’applicazione di speciali intonaci contentivi. I quali, secondo l’avvocato che difende da decenni le vittime da esposizione all’amianto, non sono sempre efficaci: «Ogni due o tre mesi si fanno i controlli con la nave ferma in porto, ma quel tipo di bonifica ha più utilità nelle strutture statiche. Sulle navi, che sono soggette a continue sollecitazioni, l’amianto può solo essere eliminato».
In altre parole, mareggiate e burrasche mettono in pericolo la salute degli intonaci contenitivi e costringono spesso a riparazioni o sostituzioni di parti contenenti amianto, le cui fibre rischiano di essere inalate dai marinai. «Quando c’è cattivo tempo, la nave balla», sintetizza Costagliola.
A farne le spese sono, ancora una volta, i lavoratori del settore marittimo. «Il mesotelioma è un tumore raro che colpisce una persona su 100mila – ragiona Carabellese –. A Procida, solo il mio studio ha gestito almeno 15 casi di mesotelioma, su una popolazione di circa 10mila abitanti: per rispettare la media, i marittimi dovrebbero essere circa un milione e mezzo». Oggi, il settore conta in Italia circa 40mila impiegati. Che, una volta scesi dalle navi, vanno incontro a pericoli perfino maggiori: molte imbarcazioni per il trasporto di passeggeri necessitano di riparazioni continue, che ancora sollevano asbesto. «Quando svolgono le manutenzioni – spiega il presidente Apin – corrono dei rischi e il risultato sarà evidente ancora per anni».
Nel frattempo, però, anche ottenere il beneficio contributivo da esposizione all’asbesto è un calvario per i marittimi, che per decenni sono rimasti a contatto con l’amianto in mare. La legge del 1992 ha riconosciuto risarcimenti a chiunque fosse in grado di certificare l’esposizione continua all’asbesto, nella misura di almeno 100 fibre per litro, per un periodo non inferiore ai 10 anni sul luogo di lavoro. Un’impresa ardua per i marittimi: «Avendo spesso cambiato le navi d’imbarco – commenta l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto –, per dimostrare il superamento delle 100 ff/ll presso tutte le navi in cui sono stati imbarcati, i marittimi hanno trovato non poche difficoltà. Per la verità, l’Inail ha negato il certificato quasi nel 100% dei casi». Non solo: «Gli armatori spesso erano di bandiera estera e quelli in patria, in molti casi, avevano chiuso le attività». Rendendo, de facto, impossibile certificare il periodo di esposizione ultradecennale. Una serie di sentenze ha consentito, dopo decenni, a molti marittimi di ottenere il giusto beneficio contributivo. Ma, per molti, la partita è ancora aperta: «Io sono al quinto grado di giudizio e non ho ottenuto niente», commenta amareggiato Antonio Costagliola.