Un'immagine di dj Fabio impegnato nella fisioterapia quotidiana. L'équipe guidata da Mainini lo seguiva dal 2015
«Sono stati fino all’ultimo i grandi amici di Fabiano Antoniani, che anche loro chiamano Fabo. Dal novembre del 2015, quando è tornato a casa dall’ospedale dopo l’incidente, sono stati con lui ogni giorno dandogli cura, sollievo ed ascolto: «Eravamo a casa sua cinque giorni a settimana, c’erano il fisioterapista, l’infermiere, un ausiliario, all’inizio anche la logopedista e una psicologa, di cui, però, poi ha deciso di fare a meno. Ho scritto io il suo piano di riabilitazione e lui collaborava con molta volontà, aveva una gran voglia di farcela. Poi è successo qualcosa».
Angelo Mainini, medico fisiatra, è il direttore sanitario della 'Maddalena Grassi', fondazione laica di diritto privato, specializzata nell’assistenza domiciliare ai disabili gravi e attrezzata per i casi più complessi. «In venti anni di attività abbiamo accompagnato la vita e la morte di centinaia di persone come Fabo o in condizioni analoghe – spiega lo specialista – e attualmente seguiamo anche un centinaio di bambini». Tra questi – scopriamo – anche Matteo Nassigh, il ragazzo ormai 19enne che non parla ed è completamente immobilizzato, ma che dalle nostre pagine domenica aveva lanciato un ultimo appello proprio a Fabo: «Non andare a morire, noi due possiamo migliorare il mondo». «L’ultima volta che siamo andati da lui è stato venerdì, il giorno prima della sua partenza per la Svizzera. C’era anche il cappellano, don Vincent, chiamato da Fabo, non so che cosa si siano detti... Non giudico quanto è successo poi, questi sono temi di assoluta delicatezza e talmente legati alla situazione di ogni singolo individuo che è impossibile dettare regole generali, ma certamente questo epilogo è una sconfitta per tutti: la scienza medica fa progressi impensabili per migliorare e allungare la vita, ma nessuno è stato in grado di dare a Fabo la motivazione sufficiente a continuare ad amare la sua». Perché è questa la profonda questione: «In decenni a contatto diretto con pazienti come Fabo – continua Mainini – vediamo che il problema è avere o non avere qualcosa per cui valga la pena vivere. Penso a tante persone come lui, anche più sofferenti, che a un certo punto trovano la spinta per voler proseguire sulla strada della vita, e in questo non ci sono regole o automatismi, sarebbe troppo facile: non dipende dalla gravità della malattia, non è nemmeno una questione di fede, il contesto familiare incide (se si sentono amati o non amati), ma poi ogni storia è a sé. Ecco perché fare una legge su situazioni così mutevoli significherebbe voler dare confini netti e cose che non possono averli».
E chi, come i radicali, si appropriano mediaticamente di queste storie umane «per farne cassa di risonanza ideologica», vanno a innestarsi in «equilibri che noi sappiamo essere delicatissimi. Ci vuole un solo istante per passare dalla speranza alla disperazione, dalla voglia di vivere a quella di morire». È quello che è successo a Fabo. I primi mesi accettava di buon grado il piano riabilitativo ideato su misura per lui da Mainini, perché ancora sperava. A dargli la forza era il suo carattere, quella energia vitale che prima del- l’incidente, avvenuto nel 2014, lo aveva fatto vivere a mille. «Credeva nella possibilità di migliorare, si era affidato anche a terapie sperimentali. Poi ha capito che, almeno ad oggi, la medicina non era in grado di ridargli le sue funzioni. Caduta la speranza, non ha trovato qualcosa per cui valesse la pena vivere anche così». Non è una colpa, semmai è una sfortuna. Perché nessuno sa dire come avrebbe reagito al posto suo, e nemmeno dove trovare le parole per restituire la speranza a chi, dalle piste di discoteche chiassose e affollate, passa al buio di una vita cieca e immobile. «Per questo guai a chi giudica – prosegue il fisiatra di Fabo –. Ma anche a chi strumentalizza le situazioni di questi pazienti. Le ideologie campano sulla falsa concezione che esistano il bianco o il nero, invece la realtà è complessa.
In vent’anni di lavoro sui disabili gravissimi abbiamo visto di tutto. Abbiamo una paziente che si definisce atea, da anni attaccata a un ventilatore, ma sostiene che la sua vita è piena. Abbiamo poi molti malati di Sla, e solo due ci hanno chiesto di non essere tracheotomizzati, com’è già loro diritto senza bisogno di leggi nuove, quindi li seguiamo con cure palliative per morire naturalmente, senza alcuna eutanasia ma anche senza soffrire: è la volontà di una persona lucida che dice 'questa cura straordinaria non la voglio'. Lo prevede la Costituzione e anche il catechismo. Un caso come quello di Fabo, tra centinaia di disabili, non ci è mai capitato prima: la stragrande maggioranza chiede di ricevere tutte le cure possibili per una vita pienamente degna, e purtroppo non le hanno. Questo è il grande diritto inascoltato, vivere, ma non viene difeso con la forza con cui si reclama un diritto di morire». Persino la Lombardia, che è un’isola felice, copre buona parte dei costi altissimi di assistenza ai disabili gravi, ma ad esempio basta che il paziente in stato vegetativo abbia un lieve miglioramento perché il carico venga spostato sulle famiglie. «Perché coloro che si battono per la morte di pochi non si battono al fianco di queste povere madri, che noi vediamo letteralmente svenarsi per i figli? Sono una folla bisognosa e abbandonata». La storia di Fabo non è finita qui. Chi voleva usarla per fini ideologici da qui comincia. «Mi autodenuncerò appena rientro in Italia», annuncia dalla Svizzera il radicale Marco Cappato.
Fabo si è suicidato in Svizzera come già altri italiani, Cappato gli ha dato un passaggio in macchina, ma tenta la carta del coinvolgimento e del martirio, «rischia 12 anni di carcere», ripetono per inerzia i tigì. Ciò che vede Mainini tra i suoi pazienti di Sla e di altre patologie degenerative è che «all’inizio molti pensano di voler morire, ma con il tempo il giudizio nel 99% dei casi muta, strada facendo cambiano le priorità e, con il giusto accompagnamento, riescono ad apprezzare ciò che quella loro nuova vita può offrire. Se attorno hanno persone che amano e scadenze attese con gioia, come la nascita di un nipotino o la laurea di un figlio, anche solo riuscire a fare quel sorriso o muovere la testa li appaga pienamente». Ora che Fabo non c’è più, il pensiero del medico va alla disperazione di sua madre, «al dolore immane con cui all’inizio ha fatto ciò che poteva per fermare la decisione del figlio», ma poi non ha potuto che assecondarlo e aiutarlo. «Penso a cosa sarà subito dopo», diceva al medico piangendo. E oggi che quel dopo è arrivato «spero solo che abbia vicino persone capaci di consolare il suo cuore».