Uno stabilimento tessile in Ucraina
Sfoggiano etichette Made in Europe che dovrebbero far pensare a condizioni salariali dignitose e garanzie sulla sicurezza dei posti di lavoro. Ben diverse insomma dagli ormai noti casi di sfruttamento drammatico dei paesi asiatici. Ma la realtà degli stabilimenti in cui le grandi griffe delocalizzano la produzione assomiglia moltissimo a quelle dei famigerati stabilimenti di Bangladesh, Pakistan e Cina. Il Rapporto 2017 presentato oggi dalla Campagna Abiti Puliti documenta casi sistematici di sfruttamento nelle fabbriche che producono per grandi marchi come Benetton, Esprit, Geox, Triumph, Vera Moda in paesi europei come Serbia, Ungheria, Ucraina e Slovacchia, dove spesso lo stipendio medio oscilla tra gli 89 euro al mese di uno operaio ucraino e 374 di uno slovacco.
Paghe ai limiti del salario minimo legale, ma ben al di sotto di un salario dignitoso che dovrebbe essere di quattro o cinque volte superiore per permettere a una famiglia di provvedere almeno ai bisogni primari. Il che significherebbe in Ucraina uno stipendio da almeno 438 euro. Salari dunque al di sotto delle rispettive soglie di povertà e dei livelli di sussistenza. Paghe letteralmente da fame, come testimoniano le 110 interviste a operai e operaie. «A volte semplicemente non abbiamo niente da mangiare», racconta una lavoratrice ucraina. «I nostri salari bastano appena per pagare le bollette elettriche, dell'acqua e dei riscaldamenti», conferma un'altra donna ungherese.
Non basta. Molti degli intervistati hanno raccontato di condizioni di lavoro pericolose: esposizione al calore o a sostanze chimiche tossiche, condizioni antigieniche, straordinari forzati illegali e non pagati, abusi da parte dei dirigenti. I lavoratori si sentono intimiditi e sotto costante minaccia di licenziamento o trasferimento: quando gli operai serbi chiedono perché durante la calda estate non c’è aria condizionata, perché l’accesso all’acqua potabile è limitato, perché sono costretti a lavorare di nuovo il sabato, la risposta minacciosa è sempre la stessa: «Quella è la porta».
Le griffe alla moda delocalizzano nei Paesi dell’Est e Sud-Est Europa perché questi paesi rappresentano veri e propri paradisi per i bassi salari. Molti degli 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose, tra cui straordinari forzati, e si trovano in una situazione di indebitamento significativo. «Ci pare evidente che i marchi internazionali stiano approfittando in maniera sostanziosa di un sistema foraggiato da bassi salari e importanti incentivi governativi», dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti. »In Serbia, ad esempio, oltre ad ingenti sovvenzioni, le imprese estere ricevono aiuti indiretti come esenzione fiscale fino a dieci anni, terreni a titolo quasi gratuito, infrastrutture e servizi. E nelle zone franche sono pure esentate dal pagamento delle utenze. Mentre i lavoratori fanno fatica a pagare le bollette della luce e dell’acqua, in continuo vertiginoso aumento», continua Deborah Lucchetti.
La Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, è una rete di più 250 partner che mira al miglioramento delle condizioni di lavoro e al rafforzamento dei diritti dei lavoratori dell’industria della moda globale. Lavora in coordinamento con le coalizioni attive in 17 paesi europei e in collaborazione con le organizzazioni di diritti del lavoro in Canada, Stati Uniti e Australia. La Campagna ha lanciato una raccolta di fondi per realizzare un video informativo da diffondere tra i giovani e nelle scuole per raccontare le condizioni dei lavoratori del tessile e del calzaturiero in Italia e nel mondo: http://sostieni.link/16073