14 gennaio 2012: la Costa Concordia semiaffondata davanti all'isola del Giglio (Ansa)
Quando il 13 gennaio 2012 la nave da crociera Costa Concordia si accascia su un fianco a pochi metri dall’Isola del Giglio, è ormai notte, tardi perché la notizia possa comparire con ampiezza sui quotidiani del giorno dopo. È quindi trascorso un giorno di stupore e di dolore, di domande e di prime ipotesi, quando il 15 gennaio Avvenire propone in prima pagina questo titolo: «Crociera tragica. Tre morti e decine di dispersi nel naufragio al Giglio. Fermato il comandante per manovra maldestra e abbandono della nave. Il giallo della rotta sbagliata e di uno scoglio non segnalato».
I giornali ormai hanno potuto mandare sul posto i loro inviati. Ma in prima pagina (titolo: «Un boato assordante, poi il panico») Avvenire offre la testimonianza del collega Luciano Castro, dell’Ufficio stampa del Rinnovamento nello Spirito, che si trovava a bordo della nave: «Il boato è arrivato subito dopo la crema di patate e cipolle (...). La nave ha cominciato a inclinarsi (...). Poi c’è stato il black out, il buio totale (...). È stato subito chiaro che la chiglia del Concordia aveva incontrato un ostacolo». Il racconto di Castro si fa drammatico: «La gente ha cominciato a precipitarsi fuori dalla sala, io mi sono fermato per aiutare una giovane donna al quinto mese di gravidanza, in pieno attacco di panico: insieme al marito l’abbiamo stordita di rassicurazioni, indicandole a esempio la placidità del personale – quasi tutto di origine asiatica – che restava impassibile al proprio posto. In realtà, i camerieri erano inebetiti, incapaci di reagire, del tutto impreparati ad affrontare la situazione».
La prima ricostruzione dell’incidente è offerta dal procuratore Francesco Verusio (dal servizio di Pino Ciociola, inviato a Porto Santo Stefano e Orbetello): «Il comandante Francesco Schettino si è avvicinato molto maldestramente all’Isola del Giglio e la nave ha preso uno scoglio» e «il comandante non ha avvertito subito la Capitaneria di porto». Troppe cose non quadrano, scrive Ciociola. A cominciare dalla rotta, che è il passaggio decisivo di questa tragedia, visto che la Costa Concordia ha squarciato settanta metri di chiglia su un gruppo di scogli dai quali sarebbe dovuta essere ben lontana. «“Mentre navigavamo ad andatura turistica abbiamo impattato uno sperone di roccia che non era segnalato nella carte nautiche” è la spiegazione di Schettino. Che però da ieri sera è in stato di fermo giudiziario, nel carcere di Grosseto».
Molto è andato storto quella sera. Angelo Picariello, a Fiumicino, raccoglie le testimonianze di passeggeri, soprattutto stranieri, che ancora sotto choc cercato di tornare a casa. I loro giudizi sono durissimi. Paolo Ferrario raccoglie il racconto di un altro passeggero, Giuseppe Lanzafame, a lungo marittimo: «Mi sono subito accorto dell’impreparazione del personale, che non sapeva come calare in mare le scialuppe. A un certo punto ho dovuto spiegare io a uno di loro come manovrare le scialuppe e mi sono messo alla guida dell’imbarcazione perché loro non sapevano che fare ed erano più spaventati di noi».
Nello Scavo sente un comandante dei traghetti Toremar, che prestano servizio tra Porto Santo Stefano e il Giglio. Schettino viene smentito: «“Non solo quegli scogli sono ben segnalati sulle carte, ma sono ben visibili anche durante la navigazione notturna. Il problema è la condotta delle navi da crociera ogni volta che incrociano l’Isola del Giglio”. È una denuncia che anche altri ufficiali di bordo residenti nell’isola confermano. “Lo fanno per sorprendere i croceristi. Navigano il più possibile sotto costa – spiega il comandante R.S. – perché proprio in quel tratto di mare è ben visibile di sera il faro che illumina l’insenatura e il suggestivo centro abitato che i turisti amano fotografare”». E mentre Dino Frambati da Genova parla di «città sotto choc», Enrico Lenzi intervista il parroco del Giglio, don Lorenzo Pasquotti («Ho aperto la chiesa per i naufraghi»).
La vicenda si trascinerà a lungo, proponendosi come una sorta di tragica metafora di un Paese incapace di tenere la rotta e di assumersi le proprie responsabilità. Con lo scontro, come scrive Viviana Daloiso il 17 gennaio, tra due opposte versioni: «Due naufragi diversi. Non fosse che in mezzo, a parlare di quella notte dalle televisioni di tutto il mondo, ora c’è una telefonata. Anzi, tre. Sono quelle intercorse tra lo stesso Schettino e il capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno, Gregorio De Falco, venerdì, poco dopo il naufragio. Schettino durante quelle conversazioni mente, e spudoratamente. Si contraddice. Racconta di essere a bordo della nave, poi d’essere giù. È la voce dell’onore contro quella dell’irresponsabilità, dell’esitazione. "Ma qui è tutto buio...", balbetta Schettino, mentre l’altro gli intima ancora, con voce perentoria e quasi esasperata: "E che vuol fare, andare a casa? Torni a bordo!"». Con un’esclamazione divenuta sciaguratamente celebre; e qui non riferibile.