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el Aviv, gennaio 1991. Israele è sotto gli Scud iracheni. I giornalisti stranieri stanno all'Hilton, dove ogni giorno si tiene il briefing dell'esercito israeliano. Questa sera nella grande hall l'atmosfera è rilassata. I camerieri versano Veuve Cliquot, e galantemente gli uomini porgono il calice alle signore. Poi, suona l'allarme aereo.La folla cambia faccia. Dobbiamo raggiungere la sealing room, la stanza sigillata contro i gas. Tutti corrono agli ascensori, ci si spintona per entrarci a forza. Qualche donna si libera dei tacchi alti per correre più veloce su per le scale; qualche vecchio dopo tre piani ansima e si ferma, e viene quasi travolto.Ora indossiamo tutti la maschera antigas, con il filtro nero sporgente sul naso. Somigliamo a uno sciame di mosche. Stringe, la maschera: insofferente me la strappo. Incrocio lo sguardo di un vecchio sconosciuto, il solo a viso scoperto. Ci sorridiamo. È un ebreo russo ottantenne che vive a New York. Come se mi conoscesse da sempre prende a raccontarmi di sé, dei figli, di quando era bambino. Nel rifugio gremito di uomini-mosca, fra ignoti e stranieri, che dono, il racconto di un vecchio. Poi, l'allarme finisce. Tutti tolgono la maschera. Siamo tornati uomini. Nella folla di nuovo beneducata già non vedo più il mio vecchio sconosciuto amico.