Tra liturgia e catechesi, il digitale sta vincendo – causa Covid-19 – anche le resistenze ecclesiali più robuste e fondate. Le quali tuttavia hanno le loro ragioni, come proverò a testimoniare. Più di un anno fa una cara amica bolognese, insegnante a vita, che si è spesa nella formazione intrecciando instancabilmente cultura e pastorale, ha organizzato un breve corso, intitolato “I cristiani nelle città della terra” volto a sostenere un impegno ispirato dalla fede nella costruzione del bene comune. Lo ha fatto usando i metodi di una volta: prima ha trovato i partner e con loro ha messo a fuoco i temi, poi ha considerato quali relatori fossero i più adatti ad affrontarli, poi ha individuato sedi e date, infine ha convocato i relatori (tra i quali io stesso) per un incontro previo, in modo da garantire al corso un minimo di omogeneità di approccio. E quando il Covid-19 e il conseguente lockdown ne hanno impedito la realizzazione in modalità tradizionale, l'amica coordinatrice non ha creduto alla didattica a distanza ma ha provato, con doppia fatica, a spostare il corso di sei mesi. In buona parte c'è riuscita: pur scontando una defezione le prime quattro lezioni, in ottobre, si sono svolte in presenza. Ma poi ha dovuto arrendersi alla «seconda ondata», e rassegnarsi a svolgere a distanza gli ultimi due appuntamenti. Tra i quali quello a me affidato, che del resto aveva il digitale anche nei contenuti. Sono state molte le riunioni e le lezioni (e gli esami) a distanza che sono passate, da marzo in qua, per la connessione internet di casa mia, e delle quali ho fatto esperienza diretta e indiretta. Quella dell'altroieri è stata solo una in più. Ma, mentre dal tavolo di casa parlavo ai corsisti attraverso i rispettivi dispositivi, ho avvertito il limite di non riuscire a incrociare il loro sguardo. Alla fine ho svolto quasi tutta la lezione rivolgendomi, al di sopra dello schermo, al crocifisso di San Damiano che tengo appeso alla parete. Speriamo che non si sia annoiato.