Tovaglia di neve
«Lasciato a sé stesso, ha potuto guardare la natura come solo un uomo sa fare», scrisse Merleau-Ponty di Cézanne. Il quale dipingeva ininterrottamente, maniacale («cento sedute per una natura morta e centocinquanta per un ritratto», ancora Merleau-Ponty). Soprattutto, Cézanne lavorava sul colore, convinto che il disegno scaturisse dalle tonalità.
Era pittore interpellato dalla letteratura, dai continui rimandi tra evocatività della parola e resa sulla tela. Giovane, aveva letto nel romanzo di Balzac La pelle di Zigrino di «una tovaglia bianca come uno strato di neve caduta di fresco e sulla quale si elevavano simmetricamente le posate coronate di panini biondi».
Quella tovaglia di neve, il riuscire a raffigurarla, fu sfida che lo inseguiva. Era consapevole dei limiti e dell’azzardo di simile trasposizione; e aveva compreso (ebbe occasione di dichiararlo) che di quella descrizione meravigliosa di Balzac, ciò che solo era traducibile – ossia disegnabile, trasfigurabile – erano le componenti materiche: le posate, i panini. L’effetto della neve avrebbe potuto ottenerlo solo lavorando su quegli elementi più plastici, concreti, non addentrandosi negli aggettivi. «Se provo a dipingere “coronate”, sono fregato» disse, chissà a che punto consapevole della grande lezione di sguardo che così offriva.