Nell’Ottocento, prima delle invenzioni che avrebbero rapidamente cambiato la vita sul pianeta, non c’erano dischi e grammofoni e il popolo produceva da sé la propria musica. Si cantava moltissimo, e se i poveri producevano la propria musica – splendida fra tutte quella del popolo campano, una storia che è durata fino alla canzone degli anni Settanta, a Carosone e Murolo e Bruni–e–Palomba su fino agli Zezi operai di Pomigliano d’Arco, fino a D’Angelo – i ricchi avevano i loro salotti e si dilettavano di romanze. Il più famoso autore e cantante di romanze fu, non solo in Italia, Francesco Tosti, l’abruzzese amico di D’Annunzio e di Michetti che la regina Vittoria d’Inghilterra nominò baronetto. La sua romanza più celebre, scritta da lui medesimo, fu Torna, caro ideal, e mi è accaduto di riascoltarla per caso di recente, senza troppo entusiasmo, e mi ha fatto pensare a come il concetto e la parola stessa di “Ideale” fossero scomparsi da tempo dal nostro vocabolario, dopo l’assalto all’idealismo dato su due fronti non poi così opposti dai “marxisti–scientifici” e dai “positivisti–capitalisti”. “Sei un idealista”, che era una volta un complimento, diventò una specie di insulto commiserante. Non hai i piedi sulla terra, non guardi in faccia la realtà, non sei concreto, e di conseguenza non combinerai mai niente di buono. Quest’accusa, commiserante, a volte benevolmente paternalistico, io me la sono sentita ripetere spesso in passato, ma certamente mai da quelli che consideravo i miei modelli e maestri, che mi avrebbero voluto magari più “positivo” e determinato, ma che amavano circondarsi, anche senza dirlo, di chi dimostrava di avere ideali solidi a guidarlo, per la cui affermazione combattere. È curioso come un elogio sia diventato in breve tempo, dopo gli anni del boom, o un insulto o uno sfottò... Il contrario di idealismo è ovviamente realismo, e il realismo ha finito per vincere su tutti i fronti, assistito da generazioni di professori che si vantavano della loro lucida razionalità (“così è la vita, ragazzi!”) dopo la disfatta delle rivoluzioni e dei movimenti di liberazione. E alla fine sull’idealismo e perfino sul realismo ha finito per vincere, Lasch insegna, il narcisismo. La più inconsistente e la più a–sociale delle condizioni o delle scelte. Combattere per degli ideali fu un tempo la molla di scelte decisive, per dare un senso alla propria esistenza uscendo dal proprio egoismo, dalla propria miseria. Avvicinandosi il 25 aprile, mi torna alla mente ciò che, mentre lo portavano verso il patibolo, riuscì a scrivere con una spillo sulla copertina della propria Bibbia un eroe della nostra Resistenza (il padre di Giovanni Jervis, un indimenticabile amico, idealista concreto): «Non piangete, non chiamatemi povero, muoio per aver servito un’idea».