Oggi che dietro il nome di poesia non si trovano più una dozzina di autori riconosciuti e riconoscibili, ma un caos di libri innumerevoli, poco noti e ancora meno valutati e interpretati, si può pensare al Novecento come a un secolo nel quale tutto era chiaro. Non è esattamente così: anche allora i dubbi e i conflitti non sono mancati e il passare dei decenni oscurava o cancellava poeti che avevano avuto una notorietà prima circoscritta e poi scaduta. Chi ricorda ancora di leggere Diego Valeri, Giorgio Vigolo, Leonardo Sinisgalli, Alessandro Parronchi, Bartolo Cattafi? Oggi c’è ancora nelle università qualche raro studioso di poesia moderna, ma il numero dei veri lettori tende a zero anche se la parola poesia conserva l’equivoca aureola di valore imperituro, più nominale che accertato. Se si guarda al presente sembra normale e doveroso riconoscere come poeti più di cento autori, mentre quando si tratta di Novecento si è disposti a selezionare anche brutalmente. Nel passato si cerca il meglio, sul presente si è confusi, trascinati dalla corrente e ben poco esigenti. Ho davanti a me due libri, una nuova edizione di Gozzano, I Colloqui e altre poesie, molto ben curata da Alessandro Fo (Interno Poesia) e Diario del ‘71 e del ‘72 di Montale, con note e commenti più che esaurienti di Massimo Gezzi e due saggi di Angelo Jacomuzzi e Andrea Zanzotto (Mondadori). Mi sono subito detto che quanto a leggibilità, qualità e singolarità stlistica, Gozzano e Montale sono effettivamente da privilegiare. Su Montale si è concentrata un’attenzione critica, o meglio una studiosità accademica, quasi maniacale. Gozzano è stato, con Saba, un caso limite di poeta che invece di negare e disprezzare i nessi prosastici e narrativi li ha esaltati con grande maestria patetico–umoristica. Insomma, Gozzano e Montale (soprattutto quello da Satura in poi) si possono davvero leggere, fa piacere leggerli perché prevedevano il lettore, lo immaginavano, lo volevano, in un secolo che ha spesso respinto i lettori o ha preteso troppo da loro (vedi Proust e Joyce). Accanto vedo solo Sereni, Caproni e Giudici, che leggevano Montale pensando a Saba, il suo diverso e antagonista. E Pasolini? Era e si sentiva sempre poeta con una fede in se stesso così assoluta da portarlo infine a praticare la poesia come un’attività marginale. Il pubblico preferiva incontrarlo e provocarlo con i suoi articoli e i suoi film.