Il tema della missione digitale era già «apparso con forza» durante la I Sessione del Sinodo in corso, un anno fa. Lo scrive Luis Miguel Modino, «inviato speciale di “Religion Digital” al Sinodo della sinodalità», in un articolo di cui dirò più avanti. Lo confermava a chiare lettere la “Relazione di sintesi” votata al termine dell’Assemblea sinodale del 2023, dove alla parte III, n. 17, si può leggere che la «cultura digitale» è una «dimensione cruciale» della testimonianza ecclesiale oggi, proponendo «riconoscimento, formazione e accompagnamento» per i missionari digitali già attivi. Lo sanno bene i lettori di “Avvenire”, che anche attraverso questa rubrica e il suo spin-off “Missionari digitali” (ogni quindici giorni online shorturl.at/FT8G2 ), nato appunto sulla scia dell’attenzione sinodale, hanno ormai familiarità con i protagonisti e le dinamiche di questa componente della vita della Chiesa contemporanea. Nella II Sessione dell’Assemblea sinodale, in corso dal 2 ottobre, ci si può tuttavia aspettare che il tema de “La missione nell’ambiente digitale” non riemerga con altrettanta forza, giacché esso è stato affidato a uno dei dieci Gruppi di studio, coordinati a livello interdicasteriale, incaricati da papa Francesco di approfondire autonomamente alcune questioni, con un orizzonte di lavoro che va oltre la conclusione istituzionale del processo sinodale 2021-2024.
«Samaritanizzare»
Eppure, nei giorni scorsi, sulla missione e sui missionari digitali si sono potute udire, nel contesto del Sinodo, due voci significative. Comincio con quella, notissima nel mondo ispanofono, di suor Xisxya Valladares. Durante la Sessione del 2023 l’avevo colta, attraverso i suoi social, entusiasta di partecipare all’assemblea – su nomina pontificia – sia in quanto donna, sia in quanto pioniera, attraverso l’associazione “iMisión”, dell’apostolato per le vie digitali. Lo scorso 4 ottobre eccola al tavolo degli ospiti del quotidiano briefing sul Sinodo che si svolge nella Sala stampa della Santa Sede (www.youtube.com/watch?v=fp34QgcXOjY). Con molta lucidità orienta il magistero di papa Francesco alla necessità che la Chiesa non si «chiami fuori» dalle tecnologie dell’informazione se davvero vuole raggiungere le «periferie esistenziali»: chi non è battezzato, chi, pur battezzato, si è allontanato, e chi con le persone della Chiesa ha avuto una «brutta esperienza». Ripete che quello del missionario digitale è un «carisma» che «sta nascendo» e che il «metodo» di questa nuova missione non può che essere quello di «samaritanizzare», offrire prima di tutto tenerezza e misericordia. Rispondendo alle domande dei giornalisti, si dice consapevole che attualmente non in tutti i continenti questa missione sta progredendo con la stessa velocità: in America Latina presso le conferenze episcopali stanno già nascendo appositi uffici, mentre le Chiese europee sembrano in ritardo, anche se in generale i vescovi che le chiedono informazioni, quest’anno, sono molto più numerosi dell’anno scorso.
«Chi è caduto nel dimenticatoio»
La seconda voce è quella di Kim Daniels: docente alla Georgetown University (shorturl.at/Q5R31), dove dirige un progetto imperniato su “Pensiero sociale cattolico e vita pubblica”, è membro del Dicastero vaticano per la comunicazione e della Commissione per la comunicazione del Sinodo, e soprattutto è la coordinatrice del Gruppo di studio sulla missione digitale, che, come gli altri nove, ha già riferito al Sinodo sullo stato dei propri lavori. Luis Miguel Modino l’ha intervistata nell’articolo cui accennavo sopra (shorturl.at/VWPDJ). Daniels conferma alcune prime acquisizioni: attraverso la missione digitale la Chiesa può raggiungere «chi è caduto nel dimenticatoio», e «in molti casi far giungere un primo annuncio del Signore a coloro che non lo conoscono». Per «affrontare la complessità» di questa missione propone, in stile sinodale, di mettere l’accento «sull’ascolto, sul discernimento e sull’adattamento» e descrive il metodo di lavoro che il gruppo si è dato sulla base di alcune domande chiave. «Scoprire come realizzare una maggiore immersione ecclesiastica nell’ambiente digitale; integrare questa dinamica nella quotidianità della Chiesa; integrarla anche in rapporto alle giurisdizioni ecclesiastiche; avanzare proposte pratiche; riconoscere le possibili sfide». Se, conclude la coordinatrice del gruppo, «siamo chiamati come famiglia di fede a testimoniare Gesù Cristo in ogni cultura», oggi che viviamo in una cultura digitale «dovremo discernere qual è il modo migliore per raggiungere tale cultura».
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