Nel panorama musicale del secolo scorso la figura di Olivier Messiaen (1908-1992) si staglia come quella di una sfavillante, solitaria stella cometa: all'interno di un firmamento perlopiù intorbidito da un diffuso agnosticismo e da un blando spiritualismo, riflette il fulgore di una sicura e inestinguibile fede cattolica. Allievo di Dukas e Dupré, maestro a sua volta di Boulez e Stockhausen, sensibile al fascino letterario e filosofico di personaggi come Péguy, Claudel o Maritain, a dieci anni dalla sua scomparsa il compositore francese si trova ora al centro di due interessanti iniziative che contribuiscono a portare di nuovo alla luce la sua decisiva impronta artistica e spirituale. A partire dal volume Il suono dell'estasi (pubblicato da LIM, Libreria Musicale Italiana), attraverso il quale, con serietà e passione, Raffaele Pozzi si prefigge di raggiungere quella «comprensione globale» che sola potrebbe restituire a Messiaen una «peculiare e originale collocazione storica nella modernità». E lo fa, intelligentemente, concedendo ampi spazi alle testimonianze dirette dello stesso compositore, arrivando così a delinearne un convincente profilo estetico che svela la straordinaria portata altamente simbolica della sua traiettoria compositiva: «Di fatto, la sola realtà è di un altro ordine: essa si colloca nell'ambito della Fede. È attraverso l'incontro con un Altro che noi possiamo comprenderla. Bisogna tuttavia passare attraverso la morte e la resurrezione, ciò che suppone il salto fuori del Tempo. Piuttosto stranamente la musica può prepararci a tutto ciò come immagine, come riflesso, come simbolo». Soffermandosi per ora sulla prima stagione creativa ' dall'esordio ufficiale di Banquet céleste (1928) alla grandiosa Turangalîla-Symphonie (1948) - attraverso una dettagliata analisi delle partiture Pozzi offre così una salda guida alla comprensione della decisiva componente religiosa di Messiaen. E il primo, straordinario ventennio compositivo dell'autore trova sintesi esemplare nell'opera Vingt Regards sur l'Enfant-Jésus (1944), una delle più imponenti creazioni della letteratura pianistica del Novecento, recentemente incisa su disco da Steven Osborne (2 cd pubblicati da Hyperion e distribuiti da Sound and Music). Venti "sguardi" sull'umana divinità del Bambin Gesù, nel tentativo di esprimere lo stupore del creato e il compiacimento dello stesso Creatore di fronte al mistero dell'incarnazione: ecco allora l'«inesprimibile» sguardo del Padre, quello pieno di tenerezza della Vergine, quello compassionevole della Croce, quello gioioso della volta celeste e degli angeli, e poi ancora quello dei profeti, dei pastori e così via. Venti piccoli tableaux vivants, da ascoltare e meditare uno per uno; oltre due ore di musica e poesia, incorniciate da architetture sonore che riportano alla memoria le variopinte vetrate delle grandi cattedrali francesi. Osborne ne appare il cantore predestinato, al punto che le note sembrano nascere spontaneamente dalle sue dita; senza mai scindere l'aspetto artistico dal forte messaggio spirituale, da quell'aura di intima religiosità che svela i mille chiaroscuri dell'animo umano di fronte al mistero dell'Incarnazione.