Oltre che straordinaria scrittrice, Marguerite Yourcenar fu lettrice finissima. Le due cose, quantomeno in teoria, dovrebbero sempre andare insieme, sebbene non sia così di frequente come dovrebbe. Nel caso di Yourcenar l’equivalenza tra le due attività è rimasta assoluta nel corso del tempo, tesa come un filo d’acciaio fatto di coerenza. Leggeva con la stessa profondità, con l’uguale, penetrante acume che in filigrana si evince da ogni sua pagina. Una raccolta di suoi saggi (sette in tutto) dice di questa felice convergenza di sguardo, dalla scrittrice posato su artisti e sulle loro opere con la stessa luce nitida e impietosa che si puntava addosso per scandagliare sé stessa e i personaggi dei suoi romanzi. Con beneficio d’inventario (traduzione di Fabrizio Ascari, Giunti, pagine 238, euro 14,00) è il titolo di questa silloge che conta, tra i vari, uno scritto magistrale sull’opera del poeta greco Konstantinos Kavafis. Di Kavafis, Yourcenar era ammiratrice incondizionata: capace di cogliere la fibra più intima e nascosta, il motore celato che anima i versi magnifici del poeta noto al mondo come greco, ma invero greco solo a metà (era nato ad Alessandria d’Egitto da genitori originari di Costantinopoli). Pregnante e ipnotico il ragionamento che la scrittrice sa condurre in merito alle relazioni umane nella poetica di Kavafis: la sua analisi del modo in cui, nei molti versi composti in forme diverse lungo il corso degli anni, Kavafis intese e seppe leggere l’Io e Il Tu, il loro incontrarsi e disincontrarsi. Seppe farlo nel suo modo, che era di grande poeta: perché, da poeta, non leggeva le vite delle persone nella loro integralità, bensì, con vigile empatia, sempre era interessato a isolarne e coglierne un singolo momento, un determinato snodo, una determinata svolta. Una simile lettura tanto umana e specifica del prossimo scaturiva a sua volta dal suo mettere (ancora, da poeta) al centro di tutto l’attività ininterrotta della memoria. Quella inclinazione umanissima a rinvenire ogni presenza non nella matericità del corpo, quanto piuttosto nel flusso dei ricordi: nella luce accesa che sa brillare in uno sguardo costantemente rivolto all’indietro. Il risultato, osserva Yourcenar, è che l’Io per Kavafis occupa posto, tutto il posto, eliminando ogni Tu, perché il Tu è relegato a oggetto di ricordo. E altro, successivo risultato è che, avendo così congegnato un «labirinto a circuito chiuso in cui il silenzio e la confessione, la voce e l’eco si mescolano», un dispositivo isolato in un paesaggio di fatto orfano di relazioni reali, frontali, da quello stesso Io senza Tu ecco nella meraviglia della poesia nascere e sgorgare una nuova essenza: il Sé. Bisogna, per comprendere e saper sviscerare un tal genere di ragionamento critico, essere lettori a tutto tondo: che vuol dire, oltre che molto appassionati, anche lettori estremamente attenti, vigili e arguti. Marguerite Yourcenar appartiene a quella schiera: coglie nel segno quando individua tra le righe dei versi del poeta traiettorie di relazione per lui giocoforza complicate. Senza intanto smettere di restituirci la potente bellezza dei versi di Kavafis, come un balsamo lenitivo in questi tempi scabri di bellezza. «Fermarmi qui ! Mirare anch’io questa natura un poco / Del mare mattutino e del limpido cielo / smaglianti azzurri, e gialla riva: tutto/ s’abbella nella grande luce effusa».
© riproduzione riservata