Le nuvole, la speranza e il presepe alternativo
Un altro Natale è arrivato. E purtroppo sarà, ancora una volta, un Natale molto diverso da come lo vorremmo. Distante anni luce da quel clima spensierato che stasera simuleremo al cenone, con l’albero tutto illuminato e con le montagne di pacchettini ammucchiati sotto, e poi magari mettendo, a mezzanotte, la statuina di Gesù Bambino nella mangiatoia del piccolo presepe messo su alla bell’e meglio (se mai qualcuno trova ancora il tempo e la voglia di farlo; e ringraziamo Dio che quest’anno almeno ci sono state risparmiate le stucchevoli polemiche politiche sull’argomento). Perché sarà solo un altro, l’ennesimo, «periodo amaro, pieno di fragori di guerra, crescenti ingiustizie, carestie, povertà e sofferenza. Fame», come ha detto papa Francesco qualche giorno fa, nel corso della Messa per la memoria della beata Vergine Maria di Guadalupe, patrona delle Americhe, la “Morenita”, ossia la Madonna meticcia.
Quand’ero piccolo fare il presepe era un momento solenne, che durava diversi giorni. Io aiutavo mio padre in veste di assistente, gli porgevo le cose a mano a mano che me le chiedeva, il sughero, la carta roccia, i vari personaggi (il caldarrostaio, i due vecchietti che filano la lana, il fabbro, e ovviamente i pastori), tutti da maneggiare con cura perché erano fatti di gesso, niente plastica. Di anno in anno le mie mansioni crescevano, fino a quando a dodici anni mi feci coraggio e gli chiesi di lasciare fare a me. Mio padre disse di sì. Era il 1967, c’era stata la Guerra dei sei giorni, che aveva infiammato il Medio Oriente, e mi aveva molto colpito, come mi colpivano le notizie che quasi ogni giorno arrivavano sulla guerra in Vietnam. Così nel presepe, invece che i pastori, quell’anno ci misi i miei soldatini, con tanto di carri armati e un cannone puntato dritto contro la grotta, con una lucina rossa e intermittente nella canna, che veramente sembrava sparasse. Gli incubi di un ragazzino avevano preso forma e – per la teologia molto arruffata di un dodicenne – credevo che, se ogni Natale Gesù Bambino nasceva ovunque, tanto più sarebbe nato nei luoghi di guerra. Ricordo che a qualcuno il mio presepe “alternativo” non piacque molto, ma il fatto che la mia famiglia l’avesse accettato mi bastava. Non credo che ci sia stato mai, o almeno non lo ricordo io, un Natale senza nuvoloni neri a incombere sul nostro mondo ovattato e un po’ distratto. Però, forse, un Natale cupo come questo mai.
Magari perché uno di quei nuvoloni stavolta potrebbe facilmente diventare radioattivo, e questo ci tocca direttamente, eccome. Se non il nostro cuore e la nostra coscienza, tocca la nostra tasca. E questo, purtroppo, è la cosa più triste da dover dire. «Sebbene questo orizzonte appaia cupo, sconcertante, con presagi di ancor più grande distruzione e desolazione – ha detto papa Francesco – l'amore e la condiscendenza divini ci dicono che anche questo è un tempo propizio di salvezza, nel quale il Signore, attraverso la Vergine Maria, continua a donarci suo Figlio, che ci chiama alla fratellanza, a mettere da parte l’egoismo, l’indifferenza e l’antagonismo, invitandoci a farci carico “in fretta” gli uni degli altri, ad andare incontro ai fratelli e alle sorelle dimenticati e scartati dalle nostre società consumistiche e apatiche». Quando saremo finalmente capaci di rispondere tutti alla chiamata di Dio?