Ho letto in questi giorni una lettera dello scrittore Jack London. La scrisse con le viscere, quando aveva vent’anni, la mattina di Natale del 1898. Il Natale – confessa – lo obbliga a scambiare il vagabondaggio errante della sua natura con i noti protocolli delle celebrazioni domestiche. In mezzo ai rituali familiari egli scopre di essere sempre più un estraneo, e tutto quello che dovrebbe tranquillizzarlo lo fa sentire, invece, sopraffatto. Lui che aveva passato l’adolescenza a saltare da un centro di rieducazione all’altro, e che per sopravvivere aveva fatto lo strillone, il pescatore di frodo, l’agente assicurativo, il pugile e il cercatore d’oro, lui, uomo dal carattere duro, quella mattina si sente vacillare. C’è una domanda che non arriva a verbalizzarsi, che pare anzi fuori contesto rispetto allo scintillio dei messaggi augurali che ci scambiamo, ma che è forse il reale approccio al mistero dell’uomo (e al mistero di Dio). E quella domanda è: “Perché il Natale fa soffrire?”. Sì, perché non ci placano completamente i simboli, con il loro discorso incandescente; perché le tradizioni ci consolano appena per qualche momento; perché fare il presepio ci appesantisce e disarma; perché la contemplazione di quel bambino restituisce, a noi adulti, induriti come Jack London, la coscienza di quanto siamo insufficienti, indigenti, lacerati e soli davanti alla consumazione ultima del nostro destino?
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