I casinò, da ragazza li avevo visti solo nei film. Andai a vedere, una sera, quello di Campione.
Sale lussuose, i passi attutiti dal velluto bordeaux delle moquettes. La roulette che girava veloce, la pallina che rimbalzava fino all’ultimo, imprevedibile. E i croupiers solenni: «Rien ne va plus».
C’era a un tavolo una signora sui settanta, paludata di gioielli, in nero, sola. Doveva essere stata molto bella. Ora il mascara carico le appesantiva lo sguardo, il rossetto scuro faceva delle labbra una ferita. Una maschera. Gli occhi vivi però, dolorosi, non si staccavano dalla corsa della roulette.
Le dita dalle unghie smaltate di rosso fiamma non smettevano di puntare. Pair, impair, rouge, noir, e un numero, sempre quello. La ruota girava.
Pareva indifferente alle perdite. Era un vizio ciò che la incollava, forse ogni sera, a quel tavolo. Indifferente a ciò che perdeva, puntava di nuovo. Quel numero, ancora. Le tracce di un’antica bellezza, e quegli occhi fissi in un’ossessione. Quel numero, cos’era? Un giorno felice? Un lutto?
Restai a guardarla a lungo. La signora era prigioniera del gioco. Eppure, in quei suoi occhi mi pareva di intravedere altro: chiusa in un numero, una desolata, esausta domanda. La donna in nero a Campione mi sembrò l’oscura portatrice di una preghiera disperata - senza alcun Dio, cui domandare.
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