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La responsabilità è giocare di squadra

Mauro Berruto mercoledì 6 maggio 2020
La Fase 2 è iniziata con un richiamo altissimo (perfino un po' ricattatorio) alla responsabilità individuale. Chiarisco subito: molto bello questo invito, questa fiducia, come se le sorti del Paese fossero nelle mani di ciascuno di noi, individualmente. Così bello che farà del bene alla nostra Italia, risveglierà un senso civico difficilmente immaginabile prima. Avete mai visto, per dire, file così ordinate? Sarà un valore aggiunto nel domani del Paese.
Certo, la strategia della Fase 1 era facile: restate a casa. Punto. E nella stragrande maggioranza tutti lo hanno fatto. Si cambi l'hashtag di riferimento, dunque, e si passi a uno splendido: #iosonoresponsabile, perché essere responsabili non ha scadenza, non dura solo per qualche settimana di lockdown. È un valore che resta, che si manifesta in un'attenzione diversa rispetto alla comunità: significa, non mettere a rischio la vita degli altri non solo tossendo o starnutendo senza una mascherina, ma evitando di guidare se si è esagerato nel bere, nel ridurre il proprio impatto sull'ambiente magari facendo due passi in più per buttare la plastica nella differenziata o raggiungere il proprio ufficio che dista dieci minuti, senza mettere in moto l'automobile. Gesti piccoli di responsabilità o gesti enormi come pagare le tasse, cancellando quella viscida sensazione dell'evasore di essere il più furbo, in attesa di un governo che faccia un condono. Pagare le tasse come gesto di responsabilità per poter offrire un servizio di eccellenza a scuole e ospedali e non essere i primi, da evasori, a sbraitare contro la cosa pubblica perché il docente di nostro figlio non fa lezioni on–line o se nostra madre non ha trovato un letto disponibile in un'unità di terapia intensiva. Insomma, splendida occasione questo #iosonoresponsabile. Però. Però al senso di responsabilità va affiancata una strategia, un piano. Non ci si può appellare al senso di responsabilità armando i propri uomini con la spada di plastica del vestito di Zorro per mandarli a combattere contro chi ha fucili e baionette. Quello lo faceva il generale Cadorna nelle trincee della Prima guerra mondiale, con le sue “spallate”, quelle chiamata al suicidio di massa di giovani di diciotto o vent'anni che, per senso di responsabilità, venivano mandati a morire, come stormi che passano sopra la testa di un gruppo di cacciatori.
La responsabilità si deve necessariamente abbinare a una strategia i cui elementi fondanti sono noti da mesi e sono tre: i test, le mascherine e la tracciabilità del contatto. Qualcuno si è mosso meglio, qualcuno peggio. Certamente troppi si sono mossi senza una strategia comune proprio nel momento in cui questo Paese, come mai prima nella storia recente, ha dovuto affrontare un problema comune. Qual è la strategia per i test nella Fase 2? Perché regioni drammaticamente diventate epicentro, come il Piemonte, continuano ad avere la metà dei test fatti in Veneto, a fronte di una popolazione numericamente equivalente e un numero doppio di casi di positività? Dove sono le mascherine in quantità costantemente sufficiente? Qual è la strategia sulla tracciabilità del contagio, che non è certo solo un'applicazione da scaricare? E comunque, ministra Pisano, che ne è di questa app dopo che la sua call a fine marzo, aperta per 48 ore, ha generato 319 proposte? Che ne è del lavoro della sua task force di 74 esperti che ne ha scelta una di cui abbiamo imparato solo il nome, ma di cui a oggi, 6 maggio dopo 42 giorni, ovvero 1.000 ore da quelle 48 di durata della call, non abbiamo ancora contezza e certezza vera?
Questa rubrica che di solito parte dello sport per andare altrove, questa volta parte da altrove per finire con lo sport. Le squadre che perdono hanno la tendenza a pensare individualmente, quelle che vincono sono quelle che, soprattutto nelle difficoltà, sono capaci di continuare a pensare come collettivo. Per questo, su queste pagine, sin dal primo momento l'appello alla responsabilità si era fatto forte chiamata alla corresponsabilità. Abbiamo già pianto 30mila morti, almeno quelli ufficiali, come se da inizio marzo nel nostro Paese, ogni singolo giorno, fosse caduto un Boing 747 pieno zeppo. Serve altro? Qui non c'è una coppa in palio. Ci sono vite umane, un tessuto economico lacerato e un Paese da ricostruire. Giocando di squadra.