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La crescente solitudine che il digitale alimenta

Gigio Rancilio venerdì 23 giugno 2023
Quando parliamo di malessere da isolamento, la nostra mente corre ai lockdown durante la pandemia e ai loro effetti che purtroppo molti sentono ancora. Benché moltissima parte del digitale ci offra strumenti per creare relazioni, è innegabile che una parte delle tecnologie ci spingano a isolarci sempre di più. Basti pensare alle ore passate a vedere da soli video sui social, alle maratone in solitaria sulle piattaforme streaming per guardare più puntate di una serie TV, una dietro l’altra, ma anche alla realtà virtuale. A questo punto a qualcuno saranno venuti in mente i cosiddetti hikikomori, cioè quei ragazzi che decidono di isolarsi dal mondo, chiudendosi in camera davanti a un computer o a una console di gioco. Chi ha studiato il fenomeno, nato in Giappone anni fa, sa però che la tecnologia non è il fattore scatenante di certe scelte ma paradossalmente l’ultimo appiglio di questi ragazzi con una parte del mondo esterno. A trasformarli in hikikomori sarebbero soprattutto padri assenti, madri troppo invadenti e in generale l’eccessiva pressione di scuola e famiglia di solito esercitata nella convinzione di fare il bene dei ragazzi, ma che fa sentire alcuni di loro dei falliti.
Da qui l’idea di staccare tutto e isolarsi. Anche la realtà virtuale nella maggior parte dei casi può isolarci. Ma può anche essere usata, come abbiamo raccontato alcune settimane fa, per far incontrare persone diverse e lontane, segnate da un dramma o da un grave lutto, facendole partecipare a gruppi (digitali) di terapia. Prendete Vision Pro, il nuovo visore di Apple, presentato alcuni giorni fa (ne ha parlato Mauro Magatti nel suo editoriale di domenica). La prima cosa che colpisce è il suo prezzo (sarà in vendita in America dal 2024 a 3.499 dollari). Eppure chi l’ha provato ne racconta meraviglie (a volte con un’enfasi un po’ sospetta). L’idea che un visore - che sembra una versione moderna dei vecchi occhiali da sci o una maschera da sub - ci faccia gustare un video con una qualità altissima piacerà a tanti. L’idea invece di immaginarci lavorare, con addosso questi occhiali, come se fossimo davanti a un enorme tablet muovendo le mani nell’aria (come faceva Tom Cruise in Minority Report e come abbiamo visto e vediamo in tanti film e serie tv) produce pareri diversi, legati anche alla nostra età e al nostro tipo di approccio al digitale. Comunque la si pensi, immergersi nella realtà virtuale vivendo esperienze uniche (come volare sulle ali di un’aquila o visitare città stupende anche se si è costretti in un letto e non per propria scelta) ha in sé qualcosa di affascinante. Non nuovo, ma sempre più sofisticato. Ci sono però ancora due punti importanti che novità così portano nelle nostre vite. La prima si chiama VR sickness ed è un malessere fisico del corpo umano simile al “mal d’auto” e al “mal di mare”. L’altro è il cosiddetto malessere da isolamento visivo che nasce dopo lunghi periodi nei quali indossiamo qualcosa sopra gli occhi, nascondendoci la realtà che abbiamo intorno. Due problemi che Apple ha affrontato con forza. Per esempio, grazie alla tecnologia EyeSight il suo visore, attraverso una serie di micro videocamere,
permette a chi lo usa di vedere anche il mondo esterno (reale).
Una soluzione che serve soprattutto a spingerci a usare i Vision Pro per lunghi periodi. Il fatto che una realtà dichiaratamente non reale abbia effetti molto concreti sul nostro fisico, cioè sul nostro reale, è l’ennesima dimostrazione che non sono mondi così divisi come per anni ci siamo detti (ricordate? «Ciò che è digitale non è reale» e via dicendo). Il che ci ricorda che prima che sugli strumenti dovremmo concentrarci su come li usiamo. © riproduzione riservata