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Gianni Brera, lo storyteller che fu profeta di Eupalla

Mauro Berruto mercoledì 20 dicembre 2017
Oggi lo si definirebbe storyteller e lui si arrabbierebbe come un bufalo. Letteralmente non significa altro che cantastorie, una figura antica, tuttavia Giovanni Carlo Brera, detto Gianni, è stato uno storyteller d'avanguardia per aver messo, al centro delle proprie storie, lo sport. Non dunque il gesto del raccontare ha fatto grande la sua figura, quanto l'oggetto del suo racconto o, meglio ancora, l'infinta dignità che fu capace di dare allo sport come genere letterario.
Lo fece decenni prima di tutti grazie agli strumenti che la sua intelligenza sconfinata gli aveva regalato: l'onomaturgia (parola cacofonica che indica l'arte di saper creare frasi d'autore, proprio come facevano Giacomo Leopardi o William Shakespeare), i giochi di parole, i neologismi. Sue invenzioni, fra mille, le parole contropiede, catenaccio, melina oggi uscite dallo stretto gergo calcistico e diventate di uso comune. Un talento indiscusso per le storie e un modo di raccontarle che faceva precipitare il lettore in un linguaggio mai visto prima, da trattare come un animale vivo e mai uguale a se stesso, da tenere a bada in una specie di continuo esercizio, un vero e proprio allenamento dell'intelletto.
D'altronde a Brera non piacevano quei giocatori tecnici, ma sempre pronti a estraniarsi dalla lotta, gli piacevano piuttosto i giocatori di pancia, d'istinto, i generosi. Leggere i suoi pezzi era proprio una lotta nel fango, non certo un esercizio da fare in punta di fioretto. Se lo sport ha un merito, è proprio quello di essere generatore infinito di storie, inesauribile sorgente di metafore, energia, intensità. Il trasporto di quella intensità è affidata ai cantori dello sport, che ricevono un dono che dovranno, in qualche modo, regalare ad altri esseri umani. Le storie (quelle vere) che lo sport sa generare sono normalmente molto più forti di quelle inventate. La fiction sportiva appare più fragile della realtà ed è per questo che i cronisti possono diventare veri e propri autori che hanno il vantaggio di avere trame già scritte e l'obbligo di concentrarsi sulla bellezza del linguaggio, sull'estetica della parola.
Il più bel binomio tra gesto tecnico e sua narrazione resta quel minuto di racconto in cui Victor Hugo Morales, telecronista per la televisione argentina ai Mondiali del Messico del 1986, racconta in diretta il famoso goal di Diego Armando Maradona, capace di scartare sette giocatori inglesi, il goal più bello della storia del calcio. Victor Hugo Morales sembra aver già visto quel goal in una vita precedente, gioca con le parole come "El niño de oro" fa con la palla, chiude la telecronoca di quell'azione con una specie di preghiera laica dove ringrazia Dio per il football, per Maradona, per quelle lacrime che gli rigavano gli occhi, ma l'apice di quell'esempio meraviglioso di narrazione sta in una descrizione: Victor Hugo Morales chiama Maradona barrilete cosmico.
Barrilete in Castigliano, lo Spagnolo che si parla in Spagna, significa "piccolo barile", forse velato riferimento alla fisicità di Maradona, ma nello Spagnolo che si parla in Argentina barrilete è l'aquilone e, dunque, quel gioco di parole assume un significato meravigliosamente epico. Geniale. Insomma, gli atleti generano storie senza soluzione di continuità, ma se non ci fossero i narratori dello sport (antichi o moderni, abilitati alla parola o al testo scritto, alla cronaca o alla letteratura) tutto sarebbe inutilmente sterile. Le storie esistono solo quando sono raccontate e, a sentirle raccontare bene, hanno tanto da insegnarci. Provate a leggere questo: «Io sono triste perché mi colgono troppi rimpianti; perché mi stanno nascendo troppi scrupoli nel sentinoso recesso dove è l'anima. Ho dissellato da tempo Ronzinante e l'ho accostato alla greppia. Sta mo' a vedere che gli si guastano i denti. Un giorno, se mi salta la mosca, riporto il cavalluccio in dirittura e tento il galoppo. Sarò un Don Chisciotte con l'addome di Sancho». Sì, musica e parole di Gianni Brera, profeta della dea Eupalla, colei che presiede alle vicende del calcio, divinità benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi e che se lo fece scappare dalle mani esattamente venticinque anni fa, fra le lamiere contorte di un'auto sommersa dalla nebbia della sua Pianura Padana, fra Codogno e Casalpusterlengo. Come se Gabriel Garcia Marquez fosse morto bollito dal caldo umido di Macondo.